Certo, forse troppo ricalcato sulle linee guida di The Transporter, vuoi per la meticolosità caratteriale, vuoi per l’atteggiamento pacato e allo stesso tempo incontrollabile del personaggio, ma ciò nonostante Baby Driver sa divertire, si discosta dagli eccessi degli action movies e si concentra, invece che nelle innumerevoli sparatorie che occupano la metà della pellicole del genere, in una visione più fanciullesca del concetto action, più innocente, rivelando la realtà del giovane Baby (Ansel Elgort), alle prese con un mondo del crimine raccontato in chiave adolescenziale, secondo i tratti distintivi dell’universo teenager, come l’amore, gli impegni domestici, la passione per la musica, l’eterna scelta tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la paura di deludere le aspettative di chi crede nella nostra crescita.
Maturata quindi su due pagine vicine, ma pur sempre separate, come divise dalla spina dorsale di un unico libro, la matassa narrativa del nuovo lavoro di Edgar Wright si dirama secondo due ritmi, due velocità, due atmosfere: una rilassata e innocente, l’altra nervosa e colpevole.
È interessante, anzi più che interessante, vedere come la maturazione del giovane Baby sia al centro di un film che, per sua natura di genere, dovrebbe concentrarsi poco su temi “profondi”, e più sull’adrenalina dell’azione. Baby Driver non è il primo action che vediamo focalizzato sullo stereotipo del giovane ragazzo trovatosi immischiato in qualcosa di più grande di lui. Appena un anno fa, di fatti, gli schermi italiani proiettavano Kingsman, che come in questo caso faceva riferimento al mondo giovanile contrapposto alla grande organizzazione segreta da cui il film prese il titolo, ma a differenza di Kingsman, che si mantenne ironico e sarcastico nella sua interezza, Wright si mostra decisamente distaccato dalla volontà di creare qualcosa di già visto. Ecco dunque il perché della netta separazione tra il narrato giovanile – più denso di significati – e il narrato action crime, ironico e fine all’intrattenimento.
Baby è orfano di madre e padre, entrambi rimasti vittime di un incidente d’auto che lo catapultò nelle braccia di Joseph, il padre adottivo. Non è un ragazzo loquace, anzi, si potrebbe dire quasi che sia l’opposto e il suo disturbo uditivo, per cui sentirebbe un leggero tintinnio continuo – causa dell’incidente in giovane età – lo costringe ad ascoltare costantemente musica dai suoi innumerevoli i pods, fattore che rende la socializzazione ancor più complicata.
È sulle note dei suoi brani musicali che Baby ci racconta la sua storia, brani peraltro creati da lui tramite frasi registrate in giro per strada. Ogni canzone è un racconto e tutte, una dopo l’altra, ci accompagnano a scoprire il suo lavoro, quello che in gergo viene chiamato getaway driver, l’autista di fuga dei ladri di banche.
L’ironia del personaggio si presenta subito: un ragazzo che ha perso la sua famiglia in un incidente d’auto è il miglior pilota che le organizzazioni criminali possano trovare sulla piazza. Le gang di rapinatori devono sottostare ai suoi vizi, ai suoi ritmi musicali – letteralmente – e lui, a sua volta, deve sottostare a Doc (Kevin Spacey), suo “agente” e “collega” di vecchia data.
Colpo dopo colpo in banche sempre diverse, seppur come spettatori, cominciamo a conoscere Baby più a fondo, a capirne i ragionamenti, le paure, la sua voglia di sfuggire a quel mondo che non gli appartiene, ma che lo risucchia ciclicamente, ricordandogli che alcune cose non si possono semplicemente cancellare dal passato. Deborah (Lily James) rappresenta per l’appunto quel tentativo di fuga, il nuovo inizio, una rarità in un mondo corrotto, il pezzo del puzzle per cui vale la pena togliere le cuffie e ascoltare, anche se questo – come nel caso di Baby – comporta mescolare due mondi che dovrebbero restare separati, operando scelte che non possono che non condurre a un capolinea.
La mescolanza di action e drama, passando per un Cerro romanticismo, che viene richiamato in riprese molto particolari in bianco e nero da cinema vintage, desta non poco interesse. La musica come mezzo di comunicazione è focale e così lo è l’immagine, anch’essa volta a richiamare il romanticismo del vecchio cinema attraverso una lunga serie di piccoli dettagli: la musica degli anni ’90, i tagli di capelli di anni ancora precedenti, gli occhiali alla Blues Brothers sempre a coprire gli occhi del protagonista, i brevi attimi di serenità di Baby che canta con un borsalino in mano, richiamando forse il Jazz, come pure il cantare di Deborah con la leggiadria delle voci femminili d’accompagnamento nelle Jazzband.
Il contrasto di tutto questo mondo e la riscoperta del tema famiglia – richiamato spesso da Baby – in opposizione al mondo del crimine, seppur, come detto prima, vestito di ironia, rende l’ultimo lavoro di Wright, un piacevole ritorno agli schermi. Non un lavoro da Oscar, ma piacevole.
Mattia Serrago
Baby Driver
Regia e sceneggiatura: Edgar Wright. Fotografia: Bill Pope. Montaggio: Jonathan Amos, Paul Machliss. Musiche: Steven Price. Interpreti: Lily James, Ansel Elgort, Kevin Spacey, Jon Bernthal, Jon Hamm, Jamie Foxx, Flea, Sky Ferreira. Origine: UK/USA, 2017. Durata: 112′.