L’Oscar è come un buffetto sulla guancia, lo si dà più per affinità che per meriti reali o acquisiti, se un film vanta una produzione abbastanza “in carne”, allora esso può sperare d’essere insignito della preziosa statuetta molto più di una pellicola indipendente o assemblata in qualche oscura bottega di Hollywood. È questione di matematica, anzi, di economia domestica, quella stessa logica a cui si ricorre per centellinare il denaro per il vettovagliamento di famiglia, e che ti spinge ad acquistare un certo prodotto anziché il suo concorrente; altrimenti non si spiegherebbe perché Amour abbia ricevuto ben cinque differenti nomination (svergognando persino il paradosso tutto italiano della non-molteplicità di incarichi politici), mentre un pregevolissimo dramma in costume come A Royal Affair (En Kongelig Affaere), danese purosangue, si è dovuto accontentare, si fa per dire, di una cappelletta tutta sua nell’empireo dei film stranieri. Perché Haneke è un marchio come la Coca Cola o le scarpe Adidas, un oggetto la cui vittoria deve in qualche modo essere assicurata se non in una sezione almeno nell’altra, mentre al contrario lo scandinavo Nikolaj Arcel, non fosse per qualche precedente pellicola geograficamente circoscritta al suolo patrio, è un parvenu del cinema che agli Academy Awards ci è finito quasi per caso. Eppure A Royal Affair è un capolavoro la cui visione andrebbe resa obbligatoria anche a chi è a digiuno di storia settentrionale; nel caso specifico quella di Cristiano VII di Danimarca (1749-1808), qui interpretato da un imparruccato seppur capacissimo Mikkel Boe Følsgaard, reggente capriccioso e schizofrenico, orgoglioso puttaniere e viziatissimo gaudente di corte, che nel 1766 convolò a nozze con la cugina Carolina Matilde (Alicia Vikander, svedese) senza che nemmeno i due si fossero mai incontrati. Si dice che i fastosi imenei fossero stati celebrati alla cieca onde evitare che la follia del sovrano deflagrasse per tempo nella vita accostumata di Carolina, rendendola edotta di quanto le rispettive famiglie, per ragioni di mero prestigio, s’affrettavano ad occultare. Una volta colto l’inganno, però, il sacro vincolo era ormai stato suggellato, così la bellissima consorte, esasperata da umiliazioni e maltrattamenti, si consolò con l’acculturato medico di corte: il dottor Johann Friedrich Struensee (Mads Mikkelsen, a umile parere di chi scrive uno degli attori più bravi del mondo, nonché uno fra gli uomini più belli), illuminista “contro”, polemista dagli anonimi libelli filo-francesi, e soprattutto scaltrissimo homme politique capace, da solo, di ammansire il re la cui insania nessuno aveva mai osato domare.
Perché questo film e non altri, dunque, o perché questo in particolare a dispetto di altri? Non certo perché si tratta di un film storico, per quanto straordinariamente scritto e diretto (ricordiamo che regista e sceneggiatore si sono fatti le ossa con la trilogia Millennium), piuttosto per l’altrettanto straordinaria capacità di affrescare, nel cinema, come in letteratura, in arte e in qualunque ulteriore ambito culturale, il Grande Spirito del Nord: quell’entità imperscrutabile e priva di una definizione equamente condivisa che sempre vive nei silenzi tra le parole, nelle lande rugiadose dove il ghiaccio si confonde con l’orizzonte, nello spazio infinitesimale tra volti e pensieri. Quella di Nikolaj Arcel è una regia dimessa, che rinuncia all’affabulazione di un Lincoln (di cui R.A. si potrebbe persino definire la spavalda antitesi) per assecondare gli eterei cicli della natura, che allontana il fracasso della politica per scavare nell’umano che, sempre o quasi, oltre la politica si nasconde. Restando costantemente in bilico tra affanno e armonia, garbo e dissennatezza. Cosa che soltanto un danese sa fare.
Marco Marchetti