Arrival comincia mostrandoci la tragedia di una madre che perde la figlia per colpa di una malattia incurabile. La donna è Louise Banks e da questo momento in poi la sua vita cambia per sempre. O forse no. Forse l’inizio di una storia è in realtà solo la fine. La vita di Louise Banks cambia veramente il giorno in cui dodici navi aliene giungono in diversi punti della terra. O più probabilmente ancora il giorno in cui Louise, esperta linguista, viene reclutata dall’esercito degli Stati Uniti insieme al fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) per tentare di tradurre l’impenetrabile linguaggio extraterrestre. Ed è proprio il linguaggio, la necessità di aprire uno spazio di reciproca comprensione, l’unica possibilità di salvezza per un mondo che freme di fronte alla possibilità sempre più imminente di una guerra globale. Accompagnati dal colonnello Weber (Forest Whitaker), Louise e Ian, saliti sulla nave aliena, si ritrovano di fronte ad una barriera che divide gli alieni dagli esseri umani, simile ad un grande schermo bianco (un’immagine che sembra rievocare il candore di uno schermo cinematografico). Passa poco tempo e sul volto dei due si dipinge tutto lo stupore per l’apparizione di due eptopodi (così chiamati perché possiedono sette “tentacoli”), intoccabili al di là della barriera (e questa volta è lo stupore dello spettatore cinematografico che si vorrebbe rievocare, quella meraviglia mista a terrore che oggi è ormai dono raro in un film di fantascienza). Louise non comprende la lingua parlata dagli eptopodi ma presto scoprirà che possiedono un sistema di scrittura. Una scrittura difficile da decifrare, non lineare, composta da segni circolari complessi in grado di esprimere interi concetti.
E la circolarità del segno grafico rimanda direttamente ad una diversa percezione del tempo (nel film si cita esplicitamente la tesi di Sapir-Whorf, secondo la quale il sistema linguistico influenza la struttura del nostro pensiero, della nostra conoscenza e comprensione del mondo). Un tempo, appunto, non lineare, circolare, che apre uno squarcio verso il futuro e lo rende accessibile. Tutto questo trova un corrispettivo formale nell’utilizzo di un montaggio anch’esso non lineare, che alterna al tempo presente episodi della vita della protagonista con la figlia Hannah e immagini di un futuro successivo alla partenza aliena, secondo uno schema che gioca sul confine sottile fra flashback e flashforward. Un confine che diventa fumoso, liquido come quel senso della temporalità che Louise tenta di comprendere. Un mistero che si fa sempre più chiaro man mano che la protagonista accede ai significati della lingua aliena e che preparerà la sconvolgente rivelazione del finale.
Il film di Denis Villeneuve (regista di pellicole come Sicario, Enemy e Prisoners), rivisita uno topos tra i più diffusi nell’immaginario fantascientifico, quello dell’incontro degli esseri umani con creature intelligenti provenienti dallo spazio. Un incontro dove però la sfida principale (come nello spielberghiano Incontri ravvicinati del terzo tipo) non consiste tanto in una ipotetica battaglia globale, quanto nel trovare un modo di comunicare, una lingua comune che avvicini dei mondi differenti. Una lingua che prima ancora che essere costituita da segni grafici o sonori è scritta nel lessico intimo dell’empatia. Un lessico che si inscrive nei corpi, nei gesti e nei volti. Il volto scoperto di Louise, che si toglie la tuta di protezione con il rischio di esporsi a possibili contaminazione radioattive per farsi riconoscere come “individuo” dai due eptopodi; e i gesti dei due alieni che appoggiano i tentacoli sulla barriera per simulare un impossibile contatto con la mano della donna. È per questo che anche a loro può essere attribuito un nome (Tom e Jerry nella versione italiana): perché essi sono riconoscibili come individui, pur non avendo forma antropomorfa (a differenza, in questo caso, di quanto si vede in Incontri ravvicinati del terzo tipo).
E la meraviglia allora non nasce dal fatto di trovarsi di fronte a dei “mostri” apparenti, ma dall’incanto della scoperta di una realtà diversa, dal senso di vicinanza, dalla possibile intimità con chi sembrerebbe totalmente “altro”, del tutto differente da noi.
Michele Conchedda
Arrival
Regia: Denis Villeneuve. Sceneggiatura: Eric Heisserer. Fotografia: Bradford Young. Montaggio: Joe Walker. Interpreti: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Tzi Ma, Mark O’Brien. Origine: Usa, 2016. Durata: 116′.