Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
Antiviral
Regia: Brandon Cronenberg. Sceneggiatura: Brandon Cronenberg. Fotografia: Karim Hussain. Montaggio: Matthew Hannam. Musica: E.C. Woodley. Interpreti: Caleb Landry Jones, Sarah Gadon, Malcolm McDowell. Origine: Canada. Durata: 108 min.
Brandon Cronenberg, terzogenito di David, è un figlio di papà, nel senso migliore e più elevato del termine. Peccato se ne siano resi conto in pochi, anche considerando che il suo esordio, passato a Cannes 65, sezione Un certain Regard, non ha vinto premi né ottenuto riconoscimenti, ma soltanto qualche (stitica) riga dalla stampa di settore, e spesso nemmeno da quella. In Italia continueremo ad aspettarlo, come tutte le cose belle che per qualche imperscrutabile ragione non oltrepassano il Rubicone di Ponte Tresa e tutti gli altri limes affini. Eppure Antiviral, il cui progetto sembra essere nato come un sogno febbricitante, un’allucinazione della mente e dei sensi, prende dal genitore di Brandon la medesima ossessione per la mutazione, per la deformità e per tutto ciò che riguarda il corpo, la morte e la trasformazione della carne. Non si tratta mai di un semplice copia e incolla, sia chiaro, semmai di un aggiornamento, di una proliferazione (virale) di alcune tematiche paterne, che fuoriuscendo dal canone cronenberghiano di più stretta osservanza, divengono emanazioni a sé, dotate di una loro struttura simmetrica, di una loro congruenza interna.
La regia è forse lo stacco più evidente: fredda, quella di Brandon, e minimale, così ripulita da ogni fronzolo, dagli arabeschi e dalla passamaneria, da sconfinare quasi nell’high-tech di un moderno laboratorio. Gli ambienti sono spogli, asettici, e per quanto arredati con gusto, intrappolano i personaggi in un bianco accecante, vellutato e onnicomprensivo. Ve lo ricordate Yves Klein, quello che dipingeva tutto di blu per poi chiamare le sue tonalità preferite con il proprio nome? Blue Klein. Ecco, Brandon fa la stessa cosa, però con il bianco. Bianco Brandon. Sembra che nel suo mondo, un futuro non troppo distante in cui la gente è disposta, come forma estrema di ammirazione, a farsi infettare dalle stesse malattie dei propri idoli televisivi, non esista altra realtà al di fuori di questo colore. Accecante, fagocitante, in qualche modo universale. I suoi attori sono sonnambuli albini e lentigginosi, che nel portamento, nell’aspetto fisico, persino nell’abbigliamento, si adeguano a questa società il cui fulcro è forse rappresentato dalla Lucas Clinic, un’azienda specializzata nella compravendita di epidemie, infezioni epidermiche, focolai influenzali e tutto ciò che contamina, abbruttisce, svilisce le pelli altrimenti levigate dei divi mediatici. Il suo agente di fiducia è Syd (Caleb Landry Jones), un tizio allampanato e biondiccio che tratta solo infermità per intenditori (for connoisseurs, nell’originale), inoculandosi i pericolosi batteri nei cessi dell’agenzia affinché gli sia più facile sviare i controlli all’ingresso e rivendere i virus alla concorrenza. Cosa non banale, tra l’altro, perché le preziose malattie sono tutte copyrighted, e per piratarne i ceppi occorre un macchinario sofisticato: una sorta di marchingegno steampunk tutto pieno di alambicchi e pulegge e sensori, in grado, tra le varie cose, di “leggere” il virus per donargli una faccia distorta e mostruosa, grazie alla quale presentare il prodotto ai potenziali acquirenti. Una forma alternativa di visual merchandising, lo chiamerebbero gli esperti del ramo finanziario, anche se poi l’universo di Brandon, al di là delle scelte minimaliste e compiaciute, un che di barocco ce l’ha: basta gettare uno sguardo nelle macellerie, per rendersene conto, dei vivai in cui vengono incubati, grazie ad apposite strumentazioni, lunghi filamenti di carne (umana) sintetica, ottenuta prelevando campioni di pelle dai vip. Tutto si vende, tutto si mangia.
Brandon costruisce un film perfetto, nei toni, nella fotografia (curata da Karim Hussain, autore di uno dei più perversi deliri cinematografici di sempre, Subconscious Cruelty), nella scenografia di Arvindel Grewal, nella recitazione straniante e brechtiana dei suoi attori (a questo proposito si ricordi una comparsata di Malcolm McDowell). Forse alla base dello scarso interessamento di critica e (ahimè) pubblico c’è l’eccesso di morbosità che di sicuro ai più sensibili non potrà essere sfuggito. Certo, Antiviral non è un film per mammole, e se proprio volessimo fare paragoni, lo si potrebbe considerare più simile a un Cosmopolis particolarmente malato (da cui mutua un’attrice, Sarah Gadon) che a un lavoro di fantascienza tradizionale. Niente di male in questo, ma esso resta un film for connoisseurs only.
Marco Marchetti