C’è un sottile gusto voyeuristico nella lettura, un sollazzo autoreferenziale che solletica il narcisismo del lettore elevandolo per un istante al ruolo di protagonista. Sfogliare le pagine di un romanzo non significa semplicemente immergersi nella storia inventata dallo scrittore, significa in primo luogo rivolgere lo sguardo a se stessi, al proprio mondo, a quelle passioni rimaste sospese in qualche recondito nodo sinaptico del cervello in attesa di trovare un significato al quale aderire. Tale adesione può però essere molto dolorosa, persino spersonalizzante, poiché indaga camere sconosciute, desideri inaccettabili, che la coscienza, la ragione e la cultura non hanno il coraggio di riconoscere come propri. È lungo questo precario confine tra realtà e immaginazione che lo stilista e regista statunitense Tom Ford, al suo secondo impegno cinematografico dopo il successo di A single man, tesse la trama di Animali notturni: un film che è soprattutto una ricerca narrativa per la disinvoltura con cui l’autore decide di giostrare i meccanismi della “storia nella storia”, senza compromettere la linearità e l’estetica delle singole tracce, preoccupandosi soltanto di distorcere i significati dell’insieme.
La protagonista di questa metastasi semantica è Susan Morrow (Amy Adams), un’affermata gallerista di Los Angeles, abile committente post-moderna alla costante ricerca di nuovi talenti e nuove provocazioni da presentare sul mercato. Susan è altresì una donna sola, che annega i dispiaceri di una carriera d’artista abortita sul nascere e di un matrimonio giunto al capolinea, nell’eleganza fine a se stessa della ricca società in cui è vissuta fin da bambina, dalla quale, nonostante l’ispirazione artistica giovanile, non è mai riuscita a prendere davvero le distanze. Un giorno, Susan riceve inaspettatamente un pacco postale contenente la bozza di un romanzo scritto dall’ex marito, Edward Sheffield (Jake Gyllehaal), da cui ha divorziato vent’anni prima per scegliere di vivere con il giovane e aitante Hutton (Armie Hammer), business man di successo la cui dinamicità e intraprendenza contrasta profondamente con il carattere sensibile e remissivo di Edward. Fin dalle prime pagine, il manoscritto rivela a Susan il sorprendente talento dell’ex coniuge, un talento che in passato non è mai riuscita a riconoscere. Man mano che procede nella lettura, le fragili certezze di Susan si frantumano, innescando un turbinio di pensieri sempre più incoerente e destabilizzante.
Tom Ford sfrutta la semplicità del racconto di Edward – dalla trama certo non nuova, in alcuni frangenti persino banale, costellata da personaggi che rasentano volutamente la macchietta, a cominciare dal detective Bobby Aldes (Michael Shannon) e dal violento Roy Marcus (Aaron Taylor-Johnson) – e i suggestivi scenari naturalistici – ammiccanti, non senza una certa ruffianaggine, l’estetismo di Mulholland Drive – con il preciso intento di creare tangenzialità con il mondo reale di Susan, nei cui allentamenti dei nessi associativi e nelle reiterate traslazioni di pensiero le emozioni sembrano impigliarsi, anestetizzarsi, del tutto incapaci di trovare sfogo e senso proprio. La straordinaria operazione narrativa compiuta da Ford non consiste nell’aver fatto entrare la protagonista nel romanzo, ma di aver fatto debordare il romanzo nella vita della protagonista, nei suoi ambienti ostinatamente perfetti, simili ad acquari marini, dove eleganti e variopinte creature si muovono disinvolte tra sobri arredi zen e obese majorette nude esposte nelle gallerie d’arte quasi a controbilanciare l’eccesso di raffinatezza imperante.
Realtà e finzione finiscono così per compenetrarsi, accavallarsi, sovrapporsi, come in un intricato interscambio autostradale, da cui è certamente possibile prendere nuove destinazioni, ma è altresì facile smarrirsi. I pensieri di Susan seguitano a subire deragliamenti al punto che, da un singolo significante, i significati si sdoppiano, in una perversa commistione di piacere e orrore capace di fare di due sinuosi corpi nudi addormentati l’evocazione tanto del sereno riposo dopo l’amore quanto dell’immagine vergognosa dello stupro. Ford ha l’incredibile capacità di mostrare il brutto attraverso il bello, il dolore e la violenza attraverso il piacere, la sporcizia dell’immoralità attraverso la pulizia artefatta dell’immagine, allestendo un lento, straniante, a tratti persino fastidioso, divertissement di accostamenti dal quale, per reazione, sembra elevarsi un silente grido di angoscia, un desiderio disperato di certezza, quantunque fragile e vacua.
Se è vero, infatti, come scriveva lo scrittore e saggista letterario Antonio Tabucchi, che «la letteratura può essere il mezzo per caricare di senso una cosa di per sé insensata come l’esistenza», è altrettanto vero che essa può attivare pericolose fantasie autoreferenziali capaci di compromettere l’intero equilibrio psichico, più di quanto riescano a fare gli idoli di cartapesta propinati dalla cultura di massa. Il messaggio inquietante che sembra allora emergere da Animali notturni è che se l’identità individuale non è che l’attribuzione arbitraria di un ruolo per nulla riferibile a un principio ontologico – «Tua figlia dice che sono uno stupratore? E io divento uno stupratore» –, il modello imposto dalle mode si dimostra di gran lunga meno dannoso di quello che scaturisce dall’assoluta libertà. «Credimi, il nostro mondo è molto meno doloroso di quello reale», sentenzia il ricco amico di Susan (Michael Sheen) in uno slancio di cinico realismo; perché al di là dell’apparenza, della finzione, del frivolo mimetismo consumistico, c’è solo il baratro della malattia mentale.
Manuel Farina
Animali notturni
Regia: Tom Ford. Sceneggiatura: Tom Ford. Fotografia: Seamus McGarvey. Montaggio: Joan Sobel. Musiche: Abel Korzeniowski. Interpreti: Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson, Isla Fisher. Origine: USA, 2016. Durata: 116’.