Scene di grazia da un interno familiare
Non fu digerita da tanta critica la Palmad’Oro 2009 assegnata a Il nastro bianco. C’è chi gli avrebbe preferito Il profeta di Audiard, che dovette “accontentarsi” del Premio Speciale della Giuria. Ancora insieme in concorso nel 2012 (Audiard con l’intenso Un sapore di ruggine e ossa), ma questa volta è difficile trovare voci discordanti. Amour è un film crudele ed emozionante, spietato nell’incedere inquadratura dopo inquadratura verso l’angolo più buio della casa signorile di Anne e Georges, ma per questo naturalmente ancorato alla vita nell’espressione tangibile che è l’amore di coppia.
È forse l’opera più commovente di Haneke, la meno algida ma non per questo priva del rigore maniacale che contraddistingue la sua regia, troppo spesso, e spesso senza motivo, ritenuta priva di calore e di accenti emotivi. Sono tra coloro che hanno osannato Il nastro bianco (in generale ho salutato con favore quasi tutti i film del regista austriaco) per la capacità di raccontare oltre le immagini l’ambiguità della natura umana, posizionandola al centro della Storia, di questa generatrice nel bene e nel male. Nonostante gli orpelli simbolici, talvolta eccessivi, Haneke ha il talento dell’architetto nel costruire le inquadrature perché possano contenere i segni di un discorso che ne nasconde sempre un altro. Si prova un certo disagio davanti a un film di Haneke. C’è sempre un oggetto non identificato che ti si infila dritto verso l’inconscio. Capisci che c’è dell’altro e non sempre lo trovi. Il gioco può irritare, ma sicuramente non lascia indifferenti. L’impalcatura, che pare chiara nei suoi componenti, suggerisce dei luoghi più reconditi, dove si vorrebbe accedere ma non si capisce bene come. Un enorme “funny game” (non mi riferisco solo a Funny Games e al suo inutile remake girato per il pubblico statunitense). Basterebbe ripensare a Cache – Niente da nascondere, così programmaticamente aperto e irrisolto.
L’oggetto questa volta è scoperto, palese, si chiama morte. Calata la maschera, non significa però che abbia perso il mistero, anzi. Che sia co-protagonista in Amour è chiaro dalla prima scena che precede addirittura il titolo. Un’anziana donna è trovata morta sul suo letto, vestita e acconciata come si fa con i defunti, il capo poggiato su un cuscino pieno di fiori. Chi sfonda la porta di casa ne sente subito l’odore acre, segno che la vita ha abbandonato quella abitazione da qualche giorno. Poi l’interno familiare borghese, dopo l’unica concessione fuori dall’appartamento: un quadro fermo sul pubblico di un teatro: pubblico che guarda altro pubblico che ascolta Schubert. Mescolati tra la folla ci sono i due più che ottantenni insegnanti di musica. Il pianista è stato allievo di Anne, come probabilmente anche la loro figlia Eva (la Huppert, che però non vediamo mai al piano, sarebbe stato troppo autoreferenziale visto che fu lei la magnifica protagonista de La pianista). Altre storie, tutte fuori campo, al massimo evocate.
Basta un malore, un contatto che perde elettricità per un qualche minuto, perché la vita annunci il cambiamento definitivo. Che sia un ictus, un mezzo infarto, un’ostruzione della carotide ha poca importanza. Contano solo la semi-paresi di Anne che degenera lentamente, la promessa di Georges che non la porterà mai in un ospedale, la com-passione di lui: l’ostia con cui ritualizzano la loro comunione rende il rapporto impermeabile a qualsiasi intromissione esterna. Georges non è l’infermiere di Anne, ne è lo specchio dell’esistenza che ha forse ancora qualche promessa da mantenere: esserci insieme nell’unica ora importante, nell’individuazione del confine terribile che rende speciale ogni respiro. Esserci per accompagnare i rispettivi corpi curvi zoppicanti paralizzati tremolanti molli rugosi, semplicemente invecchiati, oltre il tempo percepito, per stanziare nel tempo dell’attesa. Georges deve esserci da solo, non per devozione ma per capacità linguistica, unico interprete degli ultimi sussulti di Anne. E ancora per raccontare storie mai raccontate, perché non si finisce mai di scoprirsi in prossimità del personale posto delle fragole.
Amour è una processione funebre al centro della vita. Stazione dopo stazione, senza indugiare nei perché clinici, Haneke ci invita a rispettare i silenzi e le durate dei suoi quadri, still life, in cui ogni sguardo interpreta lo stadio presente, ogni tocco ogni carezza ogni dolcezza riporta le note migliori di anni vissuti insieme. Due foto bastano per riassumere l’enigma in una frase: è stato bello vivere. Per questo davanti al disfacimento è meglio accelerare la morte (non il suicidio, non l’omicidio), ma la morte come stato di grazia, dopo che ci si è “graziati” in armonia. Per questo è più violento lo schiaffo del cuscino che ferma l’ultimo alito.
Le ortogonali con cui Haneke taglia gli spazi dell’appartamento, le geometrie in cui si muovono Anne e Georges, non addomesticano affatto il caos provocato dall’attesa dell’ospite. Forse ne aumentano l’angoscia. C’è sempre qualcosa che è negato ai nostri occhi, suoni e rumori rimandano a un fuori invisibile, portato dentro da un piccione che sa di presagio. Bisogna che la morte si prenda i due coniugi per poter finalmente guardare le stanze da punti di vista diversi.
Fino a poco prima erano solo loro a fare le regole: un uomo, una donna.
Alessandro Leone
Finché morte non ci separi
Lo spettatore che lascia la sala dopo la proiezione di Amour potrebbe dire: il titolo inganna. Mentre cammina, cercando di non far rumore, ancora scorrono, inesorabili, i titoli di coda, volutamente muti. Non c’è spazio per il sollievo, nemmeno dopo che tutto è concluso. Non arriva la musica a metterci a nostro agio, a dirci che, nonostante tutto, per quanto sia stato terribile, ora tutto è finito. No: il silenzio, quel silenzio luminoso delle ultime scene, si dilata e non dà pace. Lo spettatore si sente un po’ tradito: il titolo prometteva amore e profumi francesi, prometteva una malinconia dolcemente rassicurante. E invece spiazza, logora, fa male. Non che non vi sia un’infinita dolcezza, non che non vi sia amore, in tutta la sua forza, in tutta la sua tenacia, in tutto il suo coraggio. Haneke non sceglie però di certo la via più facile per parlarcene, e ci parla invece di quanto l’amore possa essere indistruttibile, incorruttibile e ostinato proprio nel momento in cui per amare quasi sembra non ci sia più spazio, quando le circostanze di una malattia devastante sembrerebbero poter chiedere compassione, tenerezza, pietà forse, ma non più amore, l’amore dei vivi. Amour ci fa vivere un lento calvario istante per istante, dettaglio per dettaglio, in un’ossessiva e ossessionante dilatazione del tempo e dello spazio, in un continuo gioco di suspence mai risolta, in cui anche il più piccolo particolare non dà pace, come lo scorrere dell’acqua di un rubinetto. É proprio il gioco dei particolari che tiene in vita il film in un perfetto meccanismo di sospensioni, di mezzi respiri o di respiri trattenuti, e non perché il dettaglio sia scabroso, ma anzi, perché è assolutamente “normale”. Ciò che devasta è proprio la normalità della malattia e del suo degenerare, l’onestà imparziale con cui è mostrato ciò che sempre si vorrebbe evitare di vedere, nella sua bruttezza e deformità, ma che sta lì ad un passo, che tutti ci riguarda, e ci parla di morte. Ma la normalità che forse più sconvolge, che forse risulta più incredibile, che ci sa quasi di follia, è la normalità di un amore che resiste, la naturalezza con cui non si tira indietro, ma sa di dover restare lì, ora più che mai. E non è un amore urlato, né drammatico, non è un amore straziato, né disperato, ma è l’amore fedele, sincero, risoluto, che non mette in dubbio, che sa accettare e sopportare senza senso di sacrificio, perché sa che deve essere là in quel momento, in quel modo, perché solo lui può farlo. E nonostante tutto, allora, nonostante Amour sia il racconto di un cammino lento e sofferto verso la morte, verso una morte di cui tocchiamo con mano il vuoto che si lascia dietro, proprio nella violenza di questo vuoto, alla fine si sente l’eco di un inno alla vita, alla vita ben spesa.
Monica Cristini
Amour
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Monika Willi, Nadine Muse. Interpreti: Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert. Origine: Francia/Austria/Germania, 2012. Durata: 127’