Un boss napoletano, il re del pesce Don Vincenzo Strazzalone (Carlo Buccirosso), scampato ad un agguato con una natica perforata da un proiettile, decide con la moglie Maria (Claudia Gerini) di simulare il suo funerale, regalare la sua più fiorente attività alle due fedeli guardie del corpo, le tigri Rosario e Ciro, e godersi in un’isola lontana la ricchezza accumulata in anni di disonesto mestiere. Quando però a Ciro (Giampaolo Morelli, ovvero l’ispettore Coliandro in un’incarnazione televisiva dei Manetti) viene chiesto di uccidere una scomoda testimone, l’ignara infermiera Fatima (Serena Rossi, nota al pubblico di Un posto al sole), antico amore adolescenziale, le cose si complicano. Rifiutato l’ordine, Ciro degrada a traditore e Don Vincenzo gli giura vendetta per mano del “fratello” Rosario.
Accolto calorosamente a Venezia, dove era in concorso, Ammore e malavita ha il merito di meditare profondamente sul cinema di genere senza scadere nella farsa o, peggio, nella parodia. In linea perfetta con la loro filmografia, i Manetti Bros. confezionano una pellicola matura, esondante eppure perfettamente controllata, nonostante omaggi, citazioni, concessioni ad un’estetica cinefumettistica.
Il plot è in apparenza semplice, Caino e Abele, figli di un padre cattivo, devono scegliere tra fede cieca e rifiuto all’obbedienza, tra tradire il genitore e i legami familiari (famiglia camorristica si intende, che a volte suggella nodi più stretti di quelli di sangue) e la promessa di un amore fanciullesco ma ancora vivo e prorompente. Sembra Shakespeare e invece è la sceneggiata napoletana (che pure sembrava Shakespeare) rivisitata all’epoca dei cellulari, tesa tesa tra commedia e tragedia, allegra come una canzone, coreografata come un musical anche nei momenti più cupi del film. E lo dichiara subito l’incipit con un morto che canta sdraiato nella bara, disgraziato in vita e disgraziato in morte, controfigura di un boss e pianto, alla maniera vistosa della sceneggiata (appunto), da donne sconosciute.
I Manetti si affidano al cantautore napoletano Nelson per i testi, Aldo De Scalzi per le musiche, ma chiamano a corte pure Raiz (nella parte di Rosario) e Pino Mauro, perché il senso del film non passi attraverso i dialoghi (scanzonati il più delle volte) ma per la via traversa della canzone teatralizzata o ballata, che non è più – come nei musical – il pretesto per mettere tra parentesi (onirica) il reale e sovraintenderlo, introiettarlo e camuffarlo, in una sorta di rielaborazione inconscia. O non solo. Le canzoni sottolineano i passaggi cruciali di sceneggiatura, gli snodi narrativi, le interlocuzioni significative, fino al duetto finale di cui taciamo. Allora va da sé che, brano dopo brano, vi sia impressa anche l’etica del racconto, lo sguardo tutt’altro che ingenuo su Napoli e i suoi vizi, a cominciare da Scampia, scenografia per uno dei numeri musicali più divertenti e taglienti al tempo stesso.
E se la Gerini piace perché finge di essere attrice per tutto il film – dunque finalmente in parte -, compagna di camorra di Buccirosso, grottesco ma lontano dai mostri della Torre (Sud Side Story), Morelli si supera nelle vesti del romantico tenebroso, incarnazione del cinema d’avventura alla Mission Impossible dei poveri (di mezzi, a confronto con il cinema di Hong Kong) ma ricchi (di astuzie), affiancato da una splendida mediterranea Serena Rossi, che vorremmo di più su grande schermo. Menzione speciale per Raiz, che canta (ci mancherebbe altro) e quando canta si porta dietro tutta Napoli e l’ineluttabilità del destino di chi sotto il Vesuvio non può scegliere da che parte stare.
Alessandro Leone
Ammore e malavita
Regia: Antonio e Marco Manetti. Sceneggiatura: Michelangelo La Neve, Antonio Manetti. Fotografia: Francesca Amitrano. Montaggio: Federico Maria Maneschi. Musiche: Aldo De Scalzi. Interpreti: Carlo Buccirosso, Claudia Gerini, Giampaolo Morelli, Serena Rossi, Raiz, Franco Ricciardi, Antonio Buonomo. Origine: Italia, 2017. Durata: 133′.