Per Spencer, uno studente d’arte, la vita non è abbastanza emozionante. Non è facile trovare qualcosa che possa ispirarlo e salvarlo dalla mediocrità. Il suo amico d’infanzia Warren, pur godendo di una borsa di studio come giocatore di calcio, ha lo stesso problema. Trovano finalmente una missione che li spinge all’azione: nella biblioteca della Transylvania University di Lexington (Kentucky), sono custoditi testi illustrati di grande valore. Rubarli diventa l’antidoto all’insoddisfazione e alla noia. In due l’impresa è improba, per questo coinvolgono Erik e Chas. Ovviamente i testi bisognerà poi venderli. I quattro amici iniziano a congegnare il piano.
Pare sia una storia vera quella raccontata da Bart Layton. Una storia di folli figli della middle class americana, i bravi ragazzi (o quasi) che non ti aspetti e che invece la fanno grossa, tanto grossa da non riuscire a tenere insieme i tasselli di un piano vacillante e che interpreta maldestramente suggestioni cinematografiche da heist-movie, ad esempio prendendo a modello i camuffamenti e i nomi in codice delle Iene. Che la storia sia completamente vera, o in parte romanzata, o lontanamente ispirata a fatti reali, poco importa. O forse no, importa, perché il regista gioca con scaltrezza tra i registri della finzione e del documentario, facendo ricorso a interviste a quelli che furono i protagonisti degli eventi nel 2003: inserti che raccontano il punto di vista interno, ma non sempre lineare con ciò che viene messo in scena e pure discrepante nell’insieme delle testimonianze. Sin dai titoli di testa il regista ci avverte che la verità è ambigua nel ricordo di chi riporta i fatti, figuriamoci una trasposizione cinematografica. Va da sé che una sciarpa cambi colore, che un uomo possa diventare nero da bianco o viceversa. La fallacia dei ricordi si mescola al bisogno di parzialità o di raffigurazione edulcorata o di mascheramento.
Layton aveva già trattato il tema del confine scivoloso tra verità e menzogna nel precedente The Imposter, premio BAFTA per la miglior opera prima nel 2012. Proprio per questa ragione American Animals è un marchingegno che tende alla menzogna e ci fa dubitare che sia vero anche ciò che dovrebbe esserlo.
Il film d’altra parte non si limita solo al gioco concettuale sulla possibilità del cinema di essere verosimile forzando la sospensione dell’incredulità, perché è poi, e soprattutto, il ritratto impietoso di quattro bastardi nati sotto una buona stella ma abbastanza scellerati da buttar via i migliori anni delle loro vite per un’emozione. E’ palese che lo scopo della rapina non siano davvero i soldi (anche se lo ripetono come un mantra, più a trovare un pretesto che per convinzione). I quattro studenti cercano qualcosa di straordinario che li scuota dal letargo spaventoso che ha tolto motivazioni ed emozioni (il ché crea delle parentele con i due protagonisti di Museo – Folle rapina a Città del Messico). Il film non risale al momento in cui in questi ragazzi qualcosa si è spento, perché quel momento forse non esiste, piuttosto è una progressione lenta verso l’oblio.
Il sonno della ragione genera mostri.
Vera Mandusich
American Animals
Regia: Bart Layton. Sceneggiatura: Bart Layton. Fotografia: Ole Bratt Birkeland. Montaggio: Nick Fenton, Chris Gill, Julian Hart. Musiche: Anne Nikitin. Interpreti: Barry Keoghan, Evan Peters, Blake Jenner, Jared Abrahamson, Ann Dowd, Udo Kier. Origine: GB/USA, 2018. Durata: 116′.