Nel saggio Sull’utilità e il danno della storia, Friedrich Nietzsche sosteneva che la vita, per essere autenticamente vissuta, deve nutrirsi dell’oblio, deve cioè risolversi nel presente, evitando la seduzione della storia, la quale, proprio perché si erge sulla memoria del passato, costringe l’individuo a vivere di ricordi, così da soffocarne la spinta creativa e renderlo inevitabilmente infelice. Ma in cosa consiste questo oblio? Qual è la portata del suo oscuro baratro? E soprattutto, è davvero possibile attribuire un senso autentico alla vita, darle una direzione, senza conoscere da dove proveniamo, quali sono stati i nostri errori e i nostri successi? Sembrerebbe una tematica troppo seriosa e cupa per un pubblico infantile, e tuttavia lo sceneggiatore e co-regista Andrew Stanton è riuscito a farne il fulcro centrale dell’ultimo lungometraggio animato della Pixar, Alla ricerca di Dory, sequel e allo stesso tempo spin-off dell’ormai celebre Alla ricerca di Nemo, trasformando l’opprimente dilemma nietzscheano in un’avventura affascinante, luminosa, ricca di colori e spunti di riflessione. Nietzsche stesso, del resto, con il suo spiccato amore per la vita e per le giocose iridescenze del divenire, non avrebbe chiesto di meglio. Non era stato forse lui a sostenere che il superamento dell’uomo poteva avvenire soltanto attraverso il recupero dello spirito infantile? «Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra, Zarathustra è un risvegliato».
Lo scenario allestito dalla casa di produzione di Emeryville è ancora una volta quello del mare. La protagonista è Dory – personaggio già incontrato nel primo episodio -, una pesciolina chirurgo che soffre di perdita della memoria a breve termine. Dory vive con Marlin e il figlioletto Nemo, due pesci pagliaccio dallo stile di vita un tantino convenzionale, i quali l’hanno accolta in famiglia inteneriti dalla sua strana disabilità, e allo stesso tempo attratti da quella sua particolare bizzarria caratteriale che le consente di prendere decisioni importanti sulla spinta del semplice entusiasmo, senza farsi mai sopraffare dalla pavidità e dalla paura di sbagliare. Dory non ricorda pressoché nulla del proprio passato e le è praticamente impossibile memorizzare episodi recenti; e tuttavia, in talune circostanze, nella sua mente affiorano fugacemente alcuni ricordi. Durante una lezione sull’emigrazione delle creature marine, le tornano alla memoria i suoi genitori, in particolare rammenta che essi vivono in California, nel “Gioiello di Morro Bay”. Sente così l’impellente bisogno di ritrovarli. Marlin e Nemo, benché perplessi sul buon esito della ricerca, si offrono di accompagnarla dall’altra parte dell’oceano. Inizia così un lungo viaggio attraverso profondità marine, barriere coralline, relitti di navi e immondizia industriale, efficaci metafore dei ricordi del passato, immagazzinati senza un apparente criterio di catalogazione, ma che attraverso la forza delle emozioni, ritrovano un loro ordine recondito, fondato su associazioni del tutto imprevedibili, fuori dalla portata della ragione. Come insegnano le neuroscienze, infatti, il processo decisionale, specie quando concerne problemi che richiedono una soluzione immediata, non si innesca sulla base di valutazioni sistematiche dei pro e dei contro in gioco, ma attraverso l’attivazione di schemi neurali inconsci fissatisi nella mente in virtù di emozioni sufficientemente intense da rendere alcune esperienze vissute particolarmente significative. Tali meccanismi inducono il soggetto all’azione, bypassando la lentezza insita nel ragionamento analitico.
«Cosa farebbe Dory?», ripetono Marlin e Nemo ogni volta che si trovano in difficoltà, consci di dover agire senza riflettere troppo. Ed è proprio da queste scelte repentine e irrazionali che la vicenda di Dory prende lentamente forma. Attraverso la forza delle emozioni, la piccola pesciolina blu recupera progressivamente i tasselli fondamentali della propria memoria autobiografica, ricostruendo la storia della propria vita e, con essa, la trama del film. Lo spettatore si trova così immerso in un universo immaginifico, in cui la traccia mnestica si sovrappone alla traccia narrativa generando un conturbante gioco di riverberi capace di innescare, come nelle migliori opere letterarie, e come ormai da tempo la Pixar ci ha abituati, una duplice lettura: una di superficie, adatta al pubblico giovanissimo, e una più profonda, che soddisfa esigenze letterarie più raffinate e mature.
Alla ricerca di Dory è ancora una volta un film sullo straordinario potere dell’emozione, ma diversamente da Inside Out, essa è ora mostrata dal punto di vista della diversità, suggerendo che non esiste un unico modo di pensare e che, non di rado, la disabilità psichica racchiude in sé qualcosa di profetico, di giocoso, di poetico. Ciò che Dory ci insegna è che l’emancipazione dell’individuo passa anche attraverso la libertà di dimenticare il passato, ossia tutte quelle incrostazioni esperienziali e interpretative che sbiadiscono l’intensità dell’emozione originaria.
«Lo storico guarda a ritroso; e finisce anche per credere a ritroso», scriveva ancora Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. «Col cercare le origini, si diventa gamberi». Ma Dory non è un gambero. Dory è un meraviglioso pesce chirurgo giallo e blu che guarda sempre avanti, nell’oscura profondità degli abissi, oltre i rassicuranti confini della barriera corallina.
Manuel Farina
Alla ricerca di Dory
Regia: Andrew Stanton, Angus MacLane. Sceneggiatura: Andrew Stanton. Fotografia: Jeremy Lasky. Montaggio: Axel Geddes. Origine: USA, 2016. Durata: 105‘.