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Africa addio

Della morte, della violenza, e di come il cinema sia anche questo

Il significato della parola shockumentary sarebbe quello di mettere lo spettatore davanti a una serie di immagini violente che, per il fatto di essere parte di una struttura documentarista, risultano essere reali, andando così a confermare ciò che noi vorremmo essere falso: quel sangue che vediamo è reale, non immaginario. Il concetto alla base, quindi, sarebbe quello di non lasciare che il mondo del documentario mostri solo ciò che può far piacere, ma che arrivi a completarsi nell’atto stesso di porre sulla pellicola (e, di ribalto, sulla nostra retina attraverso il medium del grande schermo) ciò che antropologicamente riteniamo essere un tabù: la violenza, qui intesa come qualcosa che non può più essere digerito grazie alla patina della finzione. Ciò che Bazin diceva, in uno dei suoi saggi, sulla morte del torero che si ripete all’infinito grazie alla macchina da presa, in Africa addio (1966) si vede duplicato in una serie di specchi che ne rendono l’effetto accresciuto fino all’inverosimile, in una serie di immagini ed eventi che danno di un intero continente una lettura che scavalca la semplice idea di bene e male, di giusto e sbagliato, mettendoci quindi in una situazione di sua natura scomoda.

Innegabile è il fatto che come opera Africa addio abbia una struttura ben calibrata, perfetta nella sua brutalità, nel saper dosare momenti di bellezza naturale con elementi di uccisione, sia questa degli uomini sia questa degli animali. La bravura dei registi Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi è tale da rendere difficile, a una prima visione (o anche solo a una visione da parte di non conoscitori delle strategie tecniche), il rendersi conto di come alcune scene siano state girate in forma meno documentaristica e più romanzata. Seppelliscono delle persone e vediamo la terra scendere su di noi, a pioggia, con una visuale da dentro la tomba (non siamo forse noi già morti, resi insensibili nella nostra quotidianità?). Guardiamo le immagini e non ci rendiamo conto di come i nostri sentimenti siano mossi in una determinata direzione dalla musica, elemento questo che viene inserito solo a posteriori, lontano da quelle immagini al momento del loro nascere, nella loro ripresa, eppure adesso così indissolubile nella unione con loro.

 

È un film, questo, che mette in dubbio il valore stesso del cinema. Qual è, infatti, il fine della ripresa delle immagini, se non quella di essere testimone del passaggio del tempo, di un tempo preciso, circoscritto, chiuso nei limiti dell’inizio e della fine del metraggio di cui forma parte? Eppure, parlare di film sembra essere riduttivo, scorretto nei confronti di un’opera che riesce a essere ciò che si definisce come colpo sferzante nei confronti dello spettatore. C’è da chiedersi, in questo caso, chi possa avere la forza di vedere fino alla fine questo spettacolo di grandiosità dei paesaggi, di analisi del colonialismo nelle sue varie sfaccettature, di rilevazione di un momento culturale incapace di rimanere saldo sulla via della stabilità, sia questa politica che sociale. Lo spettatore, allora, davanti a queste immagini così fortemente grevi fino a essere insopportabili (potrebbero condurre a un malessere non solo psichico, ma anche fisico) deve mettere in discussione ciò che in discussione sembrava non essere, lo status del cinema come produttore di finzione o, in percentuale minore, di “prese dal vivo” che tuttavia non toccano da vicino la morte e la violenza (o il razzismo, così ben spiegato dai registi, che si incarna nel rifiuto dell’apartheid nel Sudafrica e di chi vede nei bianchi africani solo degli elementi esterni sotto uno slogan – anche questo profondamente razzista – di Africa ai soli neri).

L’Africa che vediamo, allora, è un’Africa che non sa quale possa essere il suo futuro e che si regge su un passato che mischia inuguaglianze orribili con una struttura che ha saputo mantenere un ordine sul quale tuttavia non possiamo non nutrire dubbi di carattere etico. La bravura di Jacopetti e Prosperi, nell’insieme architettonico, risulta infine in un montaggio prezioso, fatto da chi ha un occhio clinico (forse, giocando con le parole, qualcuno potrebbe dire – a torto – cinico), capace di gestire il ritmo che nasce dai diversi pesi delle differenti parti che lo costituiscono. Un’opera di cui forse si può (deve) fare a meno se si volesse mantenere del cinema un’immagine pulita, ma che, nella indecenza delle immagini, dimostra quanto la cinepresa sia un mezzo incontrovertibile nel riuscire a catturare il tempo, lo spazio e la morte.

Diego Negretti

 

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