La morte è quello che hai fatto in vita. Sembra stupido, ma quando qualcuno muore, ed è abbastanza famoso perché ne scrivano, le pagine dei giornali si riempiono di parole di sintesi, di elogi, di aneddoti trasformati dalla memoria in oggetti volumetrici e come reali. Quasi che la scrittura, non potendo far rivivere l’estinto, ne rievocasse il ricordo sublimandolo in una proiezione in loop a portata di occhio, nascita e morte agli antipodi, e un po’ di roba in mezzo per riempire quel che manca. Allora diamo un taglio alle stitiche biografie, John Hurt non è quello che ha interpretato il mostro dall’animo gentile in The Elephant Man (1980), quello che ha avuto due candidature all’Oscar ma che si è portato a casa soltanto un Golden Globe, quello che ha recitato in Alien (1979) e pure nella sua parodia, che si è visto in Harry Potter, che incarnava un modernissimo dittatore in V per Vendetta (2005).
John Hurt è morto, parliamo di morte, la sua e quella di altri. Viene subito in mente Marcello Mastroianni, pure lui stroncato da un tumore al pancreas, e pure lui impegnato sul set fino all’ultimo, quando non si reggeva in piedi e calcava il palcoscenico armato di sedia a rotelle e medicamenti. Poi viene in mente Alan Rickman, consumato dallo stesso identico male mentre girava Il diritto di uccidere (2015) di Gavin Hood. Prima ancora era toccato ad Anna Magnani, che si era ritagliata una parte su insistenza di Fellini in Roma (1972), e che lì chiudeva un portone congedandosi dal mondo. E Patrick Swayze, che aveva recitato in Powder Blue (2009) anche se ormai il suo destino era inesorabilmente segnato. Viene da chiedersi chi amino di più, questi attori, se la vita o l’arte, il corpo o la molteplicità delle sue rappresentazioni. D’altronde per un attore il corpo non è che un prolungamento dei ruoli chiamati a interpretare, un mezzo attraverso il quale dialogare con il proprio pubblico e grazie al quale preservarsi invano dalla vecchiaia. Il cinema, che è una delle pochissime arti cinetiche in grado catturare l’immagine, è una lotta continua ed estenuante contro la morte. L’attore vive nella consapevolezza di morire, ma fa cinema nella speranza di vincere la dissoluzione della carne attraverso la custodia della memoria. Forse è un po’ per questo che sono tutti così ostinati, che si dedicano al lavoro finché la debilitazione fisica non li costringe a fermarsi.
In fin dei conti nessuno di loro muore veramente. Il cinema è la parola di Dio alla lettera, è la resurrezione della carne con tanto di giudizio (popolare). Per alcuni sarà l’inferno, rivedere se stessi all’infinito, prigionieri dei propri ruoli, ripetere milioni di volte le stesse identiche azioni, morire e rinascere della stessa vita o della stessa morte. Per altri c’è la santità, l’aureola, la beatificazione. Per altri ancora i cieli inferiori con tutte le loro gradazioni. Sarà il tempo a collocare John Hurt da qualche parte, a farlo salire o scendere, a farlo riscoprire o dimenticare. Il tempo e l’amore, tutto, troppo terreno, del suo pubblico che, siamo sicuri, non lo abbandonerà. Se non si è sacrificato lui per il cinema, che appunto malato, consunto e moribondo, ha annaspato nell’ultima fatica di Pablo Larrain, chi potrebbe aspirare alla redenzione? Anzi, alla preservazione. Film, quest’ultimo suo, Jackie, sulla rappresentazione della morte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Marco Marchetti