Cormac McCarthy si è congedato dalla vita per sopraggiunti limiti di età. Fra tutti gli uomini di spettacolo deceduti quasi lo stesso giorno (Silvio Berlusconi e Francesco Nuti), con la sua cifra tonda di nove decadi McCarthy era il più meritevole. Difficilissimo calcolare la sua eredità, soprattutto in un paese dove i prestiti delle biblioteche si impennano di qualche gradazione giusto subito dopo la dipartita; e poi vallo a capire, se si tratta di un reale e maturando interesse per la letteratura o di una moda effimera sulla scia del ne parlano tutti. Comunque McCarthy lo si ricorda più per il cinema, ahinoi, che per i romanzi, forse perché tanta roba che ha scritto era inconsapevolmente pensata per essere adattata al grande schermo. La critica lo ha declinato in tutti i modi, esistenzialista sulla scia dei grandi pensatori del Novecento; narratore western; psicologista. Alla fine, a tirarne le somme, è stato un grande sceneggiatore dell’animo umano. Sceneggiatore manierista, nel senso che scriveva libri alla maniera di. Pensiamo a La strada (2006): linguaggio breve, spezzettato da parecchia punteggiatura, frasi concise ma chiare. Alla maniera di Raymond Carver. Sembrava di leggere in filigrana il film che John Hillcoat ne avrebbe tratto pochi anni più tardi. Stessa cosa per Non è un paese per vecchi (2005), anche qui adattato a tempo di record dai Cohen nel biennio successivo. Lì gli a capo erano quasi fastidiosi, mitragliavano gli occhi peggio che le rocambolesche sparatorie del cinema. E anche l’intaglio era tutto di maniera, quella di Joe Lansdale o Don Winslow. Eppure McCarthy era un abilissimo venditore del proprio marchio, un seduttore di verbi, un ipnotista degli stili che finiva per stordire i grandi di Hollywood: James Franco e il suo Child of God (2013), Tommy Lee Jones con Sunset Limited (2011) e soprattutto Ridley Scott e The Counselor – Il procuratore (2013), uno dei suoi lavori cinematograficamente più riusciti.
Marco Marchetti