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Addio a Bud Spencer

bud1Cosa dire su Bud Spencer che non sia già stato detto? Cosa scrivere che non sia già stato scritto? Bud Spencer non aveva nemmeno un nome, o meglio: ce l’aveva, ma nessuno se lo ricordava più, come nessuno si ricordava che era un napoletano di origine controllata, che aveva esordito come sportivo professionista o che aveva lavorato a più riprese nell’America del Sud. In fin dei conti non è (più) nemmeno importante, forse non lo è mai stato. Carlo Pedersoli era quella cosa lì, prendeva il Bud dalla birra e Spencer dal grande nume hollywoodiano, Spencer Tracy, e mescolava il tutto, proprio come aveva fatto il compare Mario Girotti (che però s’era scelto il nome, narrano le cronache wikipediane, più o meno a caso: estraendolo da una lista di possibilità, una ventina parrebbe). Era diventato più di un pallanuotista, più di un giramondo, più di un verace partenopeo: era figlio di un dio minore, cioè di quel cinema di cassetta che non si è mai ritagliato uno spazio degno di nota nella storia della settima arte, ma che nondimeno ha segnato in profondità almeno due generazioni di spettatori. Sì, perché Bud Spencer non lo si ricorda per quei filmetti come Torino nera (1972) di Lizzani o Quo vadis? (1951) di LeRoy, che erano sì film d’autore, di grandi cineasti, ma che non rendevano onore al personaggio; e non si ricorda nemmeno per quel ruolo colorato che Dario Argento gli aveva assegnato in Quattro mosche di velluto grigio (1971). Lì faceva il pescatore vagabondo, rude e peloso proprio come i ruoli che lo hanno reso celebre, ma non è quello il suo merito. bud2Bud Spencer era il pistolero, il poliziotto, il buttafuori: gargantuesco, incuteva timore, sapeva menare. La sua nomea è diventata metonimica, leggendaria, persino astrattamente perturbante: “Quel tizio è grosso come Bud Spencer; ha un fisico alla Bud Spencer”. È entrato nell’uso quotidiano, il suo nome, con quel sapore di ruspante ironia, di gigionesca incredulità che da sempre ha accompagnato le sue gesta cinematografiche. E pensiamo anche ai suoi film. Dio perdona… io no! (1967) di Giuseppe Colizzi, il primo in coppia con Terence Hill, I quattro dell’Ave Maria (1968), sempre di Colizzi, o Lo chiamavano Trinità (1970) di E.B. Clucher, alias Enzo Barboni, uno che ha fatto successo praticamente soltanto grazie alla coppia Spencer-Hill. Barboni ci aveva fatto il seguito, …continuavano a chiamarlo Trinità (1971), e Anche gli angeli mangiano fagioli (1973). Lo spaghetti western comico, una sorta di declinazione obbligatoria del filone, dove tutti se le davano di santa ragione, ma senza spargimento di sangue, senza violenza, senza corpi crivellati. Erano come film attaccati alla sua pelle, che approfittavano delle sue doti fisiche: physique du rôle, lo chiamano i francesi, la mimesi massima che in Bud Spencer diventava il concetto stesso di sottogenere e che si completava grazie al contrasto corporale e psicologico con il più magro ma veloce compagno di scorribande. Possiamo azzardare che lui stava a un certo western come Maurizio Merli stava a un certo poliziesco. Erano due cose che si compenetravano, l’una diversa dall’altra ma inequivocabilmente interdipendenti. Come il Padre e il Figlio, qualcosa di spirituale e profano al tempo stesso. bud3Non è importante tenere a memoria le trame dei suoi film, perché ciò che resta è sempre una scena, una scazzottata, un momento di libero pestaggio. Scartabellate la sua filmografia: è davvero impressionante la quantità di pellicole che ancora si preservano alla nostra memoria, in più o meno perfetto stato di conservazione, più di Fellini, di Antonioni, di tutto quel cinema intellettuale che trova sfogo in qualche corso per disagiati del Dams. Piedone lo sbirro (1973) o Piedone l’africano (1978), entrambi di Steno; Io sto con gli ippopotami (1979) di Elio Zingarelli, Banana Joe (1982) ancora di Steno. E … altrimenti ci arrabbiamo! (1974) di Marcello Fondato, Chi trova un amico trova un tesoro (1981) di Sergio Corbucci e Miami Supercops (1985) di Bruno Corbucci. Sì, era la prima epoca Mediaset, quando la tv spazzatura entrava con prepotenza nelle nostre case e alla sera, come una specie di frequenza impazzita, il televisore trasmetteva tutta questa roba qui, ininterrottamente. È pazzesco capire oggi, a distanza di anni e a mente serena, quanto profondo sia stato l’influsso culturale di Bud Spencer. Anche se non ne rimembriamo nome o provenienza. Guardiamo al futuro: cosa ricorderanno un giorno le nuove generazioni? Forse i tronisti del pomeriggio, ma non certo i film, perché non c’è più un cinema popolare capace di rappresentare paure, speranze e contraddizioni di una società intera, e neppure di fare dell’ironia sul cinema stesso. Bud Spencer è stato questo, il residuo di un mondo scomparso, di una popolarità casereccia che oggi non c’è più.

Marco Marchetti

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