Una volta conclusa la visione di A Taxi Driver, grazie alla rassegna #iorestoacasa di Mymovieslive alla quale mi sono affezionata, ho avvertito crescere in me la necessità di scriverne come obbligo morale nei confronti della Corea del Sud, fermo restando l’indiscutibile importanza cinematografica di questo piccolo capolavoro ad opera di Jang Hun. Il regista sudcoreano, classe 1975, cresciuto sotto l’ala del maestro Kim Ki-duk (di cui è stato aiuto regista), ha all’attivo già svariati film e fa parte di quella generazione di cineasti dalla quale ci aspettiamo tanto nei prossimi anni.
In Italia il film ha incantato il Torino Film Festival 35, presentato all’interno della sezione Festa Mobile, ha sbancato nei festival più importanti in estremo oriente, tra i quali il Blue Dragon Film Awards, e ha ricevuto la candidatura dalla Corea del Sud a favore della nomination Oscar per il miglior film Straniero 2018.
Come dichiarato dagli organizzatori del Far East Film Festival, il gioiello di Jang Hun è un “inno civile che parla il linguaggio del blockbuster” ed effettivamente se si sbircia anche gli incassi delle sale coreane sono quelli tipici da blockbuster, con oltre 88 milioni di dollari e 12 milioni di spettatori. Viene dichiarato un inno civile, poiché il film rappresenta una finestra fondamentale su una delle pagine più dolorose della storia contemporanea della Corea del Sud, ovvero il massacro di Gwangju seguito all’imposizione della legge marziale a tutto il paese il 17 maggio 1980. Dal 18 maggio la repressione militare si fece più violenta, le proteste aumentarono fino a culminare il 21 maggio con una carneficina a cielo aperto ad opera delle milizie governative. La città di Gwangju fu tagliata fuori dal mondo, tanto che nelle altre città non si conosceva nemmeno l’esistenza delle sommosse popolari. I cittadini provarono ad informare tutta la provincia riguardo alle proteste che stavano avvenendo, ma i soldati bloccarono ogni tipo d’informazione. La protesta continuò fino al 27 maggio 1980, quando i carri armati entrarono in città e presero il controllo dell’Ufficio provinciale. Il numero dei decessi rimane tuttora un dato poco chiaro perché oscilla tra i 171 certificati e i 2000 presunti.
Il popolo sudcoreano rimase all’oscuro delle vicende fino all’istituzione dello Stato democratico (fino a quel momento gli eventi di Gwangju erano stati rubricati come rivolta comunista). Solo nel 2002 fu creato un cimitero nazionale per le vittime del massacro e venne istituita la giornata nazionale di commemorazione il 18 maggio.
Il film, dunque, si trascina un valore inconfutabile dettato dal raccontare, con uno stile a volte ironico, ma mai irrispettoso, una storia realmente accaduta: quella dell’incontro fortuito tra un tassista squinternato di Seul, Kim Man-seob, interpretato da un magistrale Song Kang-ho, e un giornalista di nazionalità tedesca, Jurgen Hinzpeter, il cui volto è quello di Thomas Kretschmann.
Kim Man-seob, disposto ad inventarsi qualsiasi escamotage per racimolare qualche soldo, sottrae furbamente il cliente straniero Jurgen Hinzpeter ad un altro tassista, dopo aver sentito dai colleghi della sua disponibilità a pagare profumatamente una corsa per Gwangju. Ovviamente il tassista è all’oscuro di cosa stia accadendo in quella cittadina e con un entusiasmo, a tratti tragicomico e esaltato dalla mimica unica di Song Kang-ho, fa di tutto per eludere i controlli militari posti all’ingresso di Gwangju.
La narrazione iniziale pone l’accento sulle differenze culturali e di pensiero tra i due protagonisti, divario che viene valorizzato dalla scelta di focalizzarsi con la macchina sui primi piani. La difficoltà comunicativa che ne emerge tra i due personaggi, sostenuta dalla scrittura efficace di Eom Yu-na, delinea metaforicamente quello che il regista ci mostrerà in seguito, ovvero, la lontananza tra quello che accade a Gwangju e l’impossibilità di comunicarlo all’esterno.
Una volta arrivati a Gwangju, Jurgen Hinzpeter renderà note le sue intenzioni di voler recuperare più informazioni e scatti possibili in modo da poter raccontare a tutto il mondo cosa stia accadendo; inizialmente Kim Man-seob prende le distanze dalla missione del giornalista, ma poi, assistendo di persona alle angherie portate avanti dalle milizie ai danni di cittadini innocenti, affronta con sofferenza uno scontro interiore fondamentale tra l’io e il collettivo.
Questa rottura coincide con uno snodo narrativo importante: il film assume il ruolo di una vera e propria opera di testimonianza civile, con tanto di inserimento di filmati di repertorio e di riprese in slow-motion delle esecuzioni, al fine di coinvolgere lo spettatore anche sul piano emotivo. L’intera collettività si sacrifica affinché i soprusi vengano raccontati e Kim Man-seob, come lo spettatore, a quel punto, non possono più rimanerne indifferenti.
Siamo tutti coinvolti nella corsa alla libertà rappresentata dalla scena finale, una delle più sensazionali e spettacolari del film, in tipico stile action da strizzare l’occhio al cinema di hollywoodiano. La regia e la buona riuscita dell’opera vengono sostenute dalla fotografia ad opera di Go Nak-seon, che ne enfatizza la spettacolarità con un gioco di contrasti e saturazione molto accentuati, senza tralasciare indubbiamente le musiche di Jo Yeoung-wuk che ne fanno da cornice.
Il film è una pagina importante della rinascita cinematografica sudcoreana, capace di smuovere le coscienze. Uomini comuni possono fare la differenza.
Tatiana Tascione
A Taxi Driver
Regia: Jang Hun. Sceneggiatura: Eom Yu-na. Fotografia: Go Nak-seon. Musiche: JoYeoung-wuk. Interpreti: Song Kang-ho, Thomas Kretschmann, Yoo Hae-jin, Ryu Jun-yeol, Park Hyuk-kwon. Origine: Corea del Sud, 2017. Durata: 137′.