Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
La cinquième saison
Regia: Peter Brosens, Jessica Woodworth. Sceneggiatura: Peter Brosens, Jessica Woodworth. Fotografia: Hans Bruch Jr. Montaggio: Jessica Woodworth. Musica: Michel Schoepping. Interpreti: Aurélia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gill Vancompernolle. Origine: Belgio, Paesi Bassi, Francia. Anno: 2012. Durata: 93 min.
Succedono cose strane per le Ardenne: in un piccolo villaggio rurale, campi, boschi e casette innevate, gli abitanti allestiscono un grande falò per festeggiare la fine della brutta stagione. È un rituale antico, apotropaico, che un osservatore esterno, dopo essersi imbattuto in giganteschi fantocci dalle misure sproporzionate, processioni, fiaccolate e candele, potrebbe a ragione ritenere persino paganeggiante. Purtroppo le cose non vanno come dovrebbero, perché la pira di legna non prende fuoco e da quel giorno la terra non dà più frutti, i pesci galleggiano stecchiti per le acque dei fiumi, le mucche non fanno più latte e i poveri contadini, in preda alla paranoia, cominciano col razionare il cibo dell’emporio locale finendo con il divorare le mosche appiccicate sulla carta moschicida. Nessuno sa darsi una spiegazione di questa improvvisa calamità, i tecnici sequestrano il bestiame “infetto” senza riuscire a raccapezzarsi, la gente girovaga spaesata per le contrade chi sospettando, chi accusando, chi rifiutandosi di condividere il cibo rimanente con i vicini. È la fine dei tempi.
È difficile trovare una chiave di lettura per questo film “ambientale”, cioè giocato sulle atmosfere del Brabante, sui suoi silenzi, le distese infinite di verde e campagna e le abitudini rustiche dei suoi contadini. Molti hanno scomodato il solito David Lynch, forse con una certa attitudine alla semplificazione, ma in realtà i riferimenti cinematografici, per tralasciare quelli pittorici al vedutismo olandese del diciassettesimo secolo, sembrano richiamare modelli più complessi e meno conosciuti, in primis Bruno Dumont, fiammingo seppur francese, e poi il surrealismo di Victor Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth, nonché quello di Stephan Brenninkmeijer. Il lavoro della coppia belga Peter Brosens e Jessica Woodworth giunge qui all’ultimo capitolo di una trilogia cominciata nel lontano 2006 con Kahdak (vincitore a Venezia del Leone per il futuro) e proseguita tre anni più tardi con il peruviano Altiplano. Per La cinquième saison i due registi preferiscono però le atmosfere casalinghe del Belgio, e assoldano un fotografo di bravura eccezionale, Hans Bruch Jr., che si accosta ai suoi oggetti di studio, questi cieli sempre grigiastri, la terra riarsa dal gelo, i campi che non fruttificano, come un entomologo ossessionato dalla precisione tassonomica. Il risultato è Veermer che incontra Salgado, e La cinquième saison finisce perciò per diventare un film puramente paesaggistico, basato sulle impressioni, le piccole epifanie del quotidiano, l’immensità di una natura non sempre benevola e spesso propensa a riappropriarsi dei doni elargiti. In realtà la storia corale che accompagna lo spettatore fino al tragico finale non lesina in scene da comédie humaine, l’apicoltore nomade preso di mira dal gruppo, e accusato insieme al figlio disabile di essere l’untore della misteriosa epidemia, la sessualità più o meno implicita di due ragazzotti che passerà per il baratto di una confezione di zucchero, i siparietti grotteschi di un uomo che alleva un gallo come un animale domestico, arrivando a comprendere però che in tempo di crisi un gallo morto è più utile di un gallo vivo.
C’è una mistica dell’uomo che sussume all’elegia del paesaggio, non si dà l’una senza l’altra, né la seconda può essere decifrata senza prima analizzare le strutture sociali di riferimento, siano esse le famiglie patriarcali del nord Europa, siano esse le sparute comunità di agricoltori che abitano la provincia. Forse è per via degli studi dello stesso Peter Brosens, ripartiti equamente tra la geografia urbana e l’antropologia, forse è per quell’inconscio collettivo, archetipico e junghiano, che tramanda da generazioni il senso umano, esistenziale e naturale del Settentrione. Da questo punto di vista, il film è estremamente curato non solo sotto il profilo formale o fotografico, ma anche musicale. L’ineluttabilità della tragedia è affidata al compositore “ufficiale”, tale Michel Schoepping, che richiama molto la sensibilità di Angelo Badalamenti, suoni che si confondono con la terra, rumori che sussurrano tra le brezze degli alberi, ma sempre con quel qualcosa di angosciante, mortifero e fatale che ben pochi musicisti cinematografici si scoprono capaci di comunicare. Per il resto, La cinquième saison offre un campionario di classicità straordinaria, dalla canzone popolare vallone al repertorio più altolocato di Mozart, Bizet e Bach. L’ouverture de La passione secondo Giovanni ricorda troppo la chiusura de Lo specchio per dirsi casualità, soltanto che al posto delle praterie ci sono gli struzzi. E quando la comunità si mette a danzare sulle note di Marty Townsend, non puoi non augurarti l’istituzione di un premio per la miglior scena di ballo. Ma la speranza della primavera è destinata presto a passare, e al suo posto appaiono i falò di The Wicker Man e le maschere dei monatti.
Marco Marchetti