Perdersi in un labirinto è praticamente impossibile: dal momento che l’imbocco della costruzione è giocoforza collegato alla sua uscita, occorrerà tenersi rasente al muro per evitare di smarrirsi nei suoi ingannevoli budelli. Se però il labirinto muta forma per ogni giorno che passa, adattando i propri dedali alle più curiose combinazioni del caso, e se i suoi cunicoli sono infestati da giganteschi mostri dentati chiamati dolenti, ecco che la questione cambia del tutto prospettiva. In questo film diretto da un esordiente americano, tale Wes Ball, succede qualcosa di molto simile: ci sono dei ragazzotti più o meno in età puberale, tutti maschi, che si ritrovano nel mezzo di una radura ubertosa, alberi, prato e piante da frutto, a sua volta contenuta tra le mura spaventosamente alte di un imponente labirinto di pietra e cemento. Nessuno di loro si ricorda come sia giunto in questo posto misterioso, né cosa facesse prima né a quale compito gli invisibili costruttori della struttura l’hanno assegnato. I disgraziati prigionieri vengono sparati nel boschetto da uno strano ascensore sotterraneo con una cadenza di uno al mese, e tutto quel che possono fare, una volta richiamato alla mente il proprio nome, è zappare la terra, raccogliere escrementi e adeguarsi ad alcune semplici regole sociali: non fare del male al prossimo, svolgere il proprio lavoro e non tentare mai di fuggire. Il minaccioso labirinto si apre infatti al mattino per richiudersi alla sera, e gli unici a cui è dato di attraversarlo sono i velocisti, una categoria di abilissimi corridori che prima del tramonto devono preoccuparsi di mapparne tutte le aree. Tenendo naturalmente conto di ogni possibile cambiamento.
Ma la rivoluzione è ormai imminente: un giorno dall’ascensore appare il coraggioso Thomas (Dylan O’Brien), che inizia a contestare sistematicamente le leggi tribali su cui si fonda la sparuta comunità e, innanzitutto, l’idea che i suoi membri debbano pensare soltanto all’autoconservazione della specie e non a elaborare un piano di fuga. Presto le differenti anime del villaggio finiranno per scontrarsi tra loro su quale sia la vera vocazione della congrega: da una parte l’ignobile Gally (Will Poulter), sostenitore della Terra piatta convinto che la scelta migliore sia ingraziarsi gli indefinibili costruttori standosene riparati tra le sue mura, dall’altra il moderato Alby (Aml Ameen) che non nasconde le proprie simpatie per il nuovo venuto e che in fin dei conti non disdegna l’aria di un cambiamento radicale. Quando però Alby viene punto da un dolente durante una perlustrazione, il suo posto vacante sarà preso da Thomas, e questa decisione metterà in moto una specie di lotta intestina. A complicare la situazione giungerà inoltre l’ultima inviata dal mondo esterno: una ragazza (Kaya Scodelario)…
Cosa nasconde il labirinto? Per quale ragione questi ragazzi si trovano confinati tra i suoi inamovibili recinti? È il quesito trainante attorno a cui si sviluppa la sceneggiatura di Maze Runner, un film che si racconta lentamente, quasi a compartimenti interconnessi, una matrioska che a minutaggio prestabilito perde un rivestimento per svelarne uno più piccolo ma meglio sigillato. Nessuno dei personaggi ricorda da dove viene, ma qualcuno sa più di qualcun altro, e qualcun altro ancora, proprio perché non può non sapere, si guadagna l’ammirazione o la disistima di alcuni componenti della comunità. Sarebbe però ingiusto limitare la pellicola alla categoria degli young adult, cioè quei prodotti giovanili, di taglio fantasy o fantascientifico, che ormai vanno per la maggiore, come se l’inserimento di un prodotto nei parametri di un target di riferimento, un brand nominale, un’etichetta di spendibilità, rischiasse di inficiarne la qualità di fondo. D’altronde nessuno penserebbe di definire young adult un precursore del genere come Il signore delle mosche di William Golding, che qui ritroviamo in numerosi richiami sociologici; e anche se qualcuno lo pensasse, ciò non farebbe altro che dimostrare come sia possibilissimo concepire un’opera narrativa efficace pur abbassando notevolmente l’età anagrafica dei protagonisti.
Maze Runner, tratto dal primo volume di una pentalogia per ragazzi a firma di James Dashner, sa essere infatti sorprendentemente maturo, visionario, infarcito da sprazzi immaginifici che vanno dagli orribili ragni biomeccanici di un Giger ripensato, alle murature perimetrali del labirinto, blocchi di cemento ricoperti di muschi, umidità e grovigli rampanti di edera, le trappole, i sommovimenti peristaltici della struttura, gli scompartimenti che si spostano nottetempo. Sembra di correre su una grande scalinata di Escher, una distorsione dello spaziotempo in cui ogni tratto della superficie riporta inesorabilmente al punto di partenza, tra piani sfalsati, gradini che immettono in sezioni ribassate, salite che si trasformano in rocambolesche discese. Forse uno scopo c’è, ma è soltanto il finale a rivelarlo. O meglio, se uno scopo c’è, il finale ne rivelerà soltanto una parte. Maze Runner si conclude senza concludersi, dice molto ma non tutto e concede una strizzatina d’occhio allo spettatore specificando che, proprio come in una puntata di Voyager, il mistero del labirinto mobile sarà svelato nella puntata successiva: The Scorch Trials, ora in produzione e previsto nelle sale per l’anno venturo.
Marco Marchetti
Maze Runner – Il labirinto
Titolo originale: The Maze Runner. Regia: Wes Ball. Soggetto: James Dashner. Sceneggiatura: Noah Oppenheim, Grant Pierce Myers, T.S. Nowlin. Fotografia: Enrique Chediak. Montaggio: Dan Zimmerman. Musica: John Paesano. Interpreti: Dylan O’Brien, Aml Ameen, Ki Hong Lee, Will Poulter, Kaya Scodelario. Origine: USA, 2014. Durata: 114′.