Realismo come scelta
Aurelio Grimaldi ha esordito nel cinema come sceneggiatore di Meri per sempre, il fortunato film di Marco Risi tratto da un romanzo dello stesso Grimaldi. Dopo la seconda sceneggiatura, sempre in collaborazione con il giovane Risi (Ragazzi Fuori) è passato alla regia, con un film poco apprezzato dal pubblico e che tuttavia ebbe un discreto successo di critica a Venezia nel 1992 (La discesa di Aclà a Floristella). Nel 1993 a Locarno ha partecipato al concorso con l’opera seconda, La Ribelle. Ha poi realizzato Le Buttane, un’agra e neorealistica carrellata sul mondo della prostituzione a Palermo.
Autore di un certo rilievo nell’ambito della nuova letteratura italiana, Grimaldi non nasconde il suo profondo desiderio di indagare e approfondire la realtà attraverso una scrittura che non mascheri né trasfiguri il reale, Nè lo registri acriticamente, ma riesca ad interpretarlo rendendolo vivo. In un articolo pubblicato su Rinascita (8 aprile 1990) scrisse, a proposito delle scene più difficili di Ragazzi fuori, che gli sembravano “troppo forti, fino ad apparire inverosimili”, ma che il film avrebbe avuto senso solo se avesse rischiato di far “prendere per eccessivo ciò che, invece, è accaduto e basta”.
Partiamo da un dato che è molto frequente nel panorama intellettuale italiano: il passaggio dalla scrittura alla regia cinematografica, il transito dalle lettere alle immagini. Come è avvenuto nel tuo caso?
Un vero e proprio passaggio non c’è stato, poiché sin da piccolo ho immaginato di scrivere libri e girare film. Due amori adolescenziali che non ho mai pensato di porre l’uno prima dell’altro. Probabilmente ho esordito prima come scrittore che come cineasta per il semplice motivo che realizzare e produrre film è molto più complicato che scrivere e pubblicare un libro.
Il tuo esordio nel cinema, comunque, è avvenuto con la scrittura, in particolare nella sceneggiatura di due film tratti da tuoi libri.
In questo senso, forse, possiamo parlare di gradualità nell’approccio al cinema. Per Meri per sempre fui assunto come collaboratore alla sceneggiatura, che doveva essere scritta da Stefano Rulli e Sandro Petraglia. Misi giù una bella stesura che si rivelò stracolma di errori dal punto di vista del linguaggio cinematografico. Ho imparato a scrivere una sceneggiatura in quell’occasione. Senza quel lavoro in collaborazione con Rulli, Petraglia e Marco Risi non avrei certo potuto apprendere i trucchi – invero semplici – del cinema.
Tra i film scritti e realizzati sinora, qual’è quello che ti ha maggiormente soddisfatto?
Sono innamorato de La discesa di Aclà a Floristella, che tra tutte le cose che ho fatto è quella a cui tengo maggiormente. Mi dispiace che il giudizio sul film, sia da parte della critica che del pubblico, sia stato così negativo.
Forse era un film estremamente semplice nella sua struttura narrativa, o forse troppo lirico. Qualcuno ti ha accusato di aver idealizzato il lavoro minorile nelle miniere di zolfo, che invece era durissimo, crudele, senza via di scampo.
Hanno detto questo ma hanno anche detto il contrario: si è parlato di una regia troppo semplice e di una regia troppo elaborata, di immagini estetizzanti – ed è stata la critica principale – e di immagini “bressoniane”. Evidentemente era nella natura del film suscitare opinioni così divergenti. In ogni caso, credo che ogni giudizio sia stato di per sé interessante.
Ma tu, hai dei precisi “riferimenti” cinematografici?
Come tutti, ho le mie passioni, De Sica, Bresson e Pasolini, in particolare. Di De Sica mi interessa la sua apparente semplicità di movimento di macchina. E’ un regista che ha una storia da raccontare e la racconta linearmente. E’ stato considerato, storicamente, un regista “semplice” eppure, a differenza di Bresson e Pasolini, i movimenti dell’obbiettivo di De Sica sono in realtà complessi. Una complessità di movimento, comunque, e non di montaggio. Bresson e Pasolini, invece, non erano attratti dalla tecnica cinematografica, e in questo senso sono per me dei modelli.
Parliamo de La ribelle, seconda regia che hai presentato in concorso, nel 1993, a Locarno. Quello che prevale è un sentimento d’angoscia e di disperazione, ed anche il finale – diverso dal libro da cui è tratto il film, e che pure hai scritto tu stesso – lascia una porta aperta alla speranza. Anche la Sicilia del film non somiglia a quella in cui viviamo ogni giorno. Me la sarei aspettata più cruda, più dura.
Forse oggi è fuori moda essere legati al realismo. Parlare di film in chiave neo-realistica significa dirne male. Per me, invece, realismo significa ancora qualcosa, cioè raccontare una realtà in cui i fatti prevalgono sullo stile, o, come dice Umberto Eco, “il linguaggio segua il contenuto”. L’attaccamento alla realtà però, non vuol dire documentare la realtà stessa, quanto ricostruirla personalmente. Altrimenti sarebbe sociologia. Tutti i miei film partono da un dato realistico, io aggiungo solo la struttura narrativa.
Il tuo rapporto con la Sicilia. Cos’è questa terra, una metafora, lo sfondo sul quale proiettare le tue storie, o qualcosa di più concreto?
Dal punto di vista artistico è stata ed è sicuramente una metafora. Non si capirebbe altrimenti perché alcuni tra i più importanti registi di questo paese siano venuti in Sicilia a girare i loro capolavori. Penso a Germi, ai fratelli Taviani, a Visconti, Damiani, Rosi, Marco Risi. Un pezzo del cinema italiano, così come un pezzo di letteratura – anche contemporanea – parla siciliano. E’ evidente che questa Sicilia, per motivi che mi piace definire “psicostorici”, sia per molti un’emblema, un simbolo.
La mafia non è presente nei tuoi film se non in modo indiretto. Non so affaccia sulla scena in prima persona, se ne parla ma non si vede. Che cosa rispondi a chi ti chiede cos’è la mafia?
Un’organizzazione parastatale. Quello che rende fortissima la mafia – ma un paio d’anni fa avrei detto invincibile – è la sua capacità di sostituirsi allo Stato stesso. Finché i pezzi di Stato collegati al potere mafioso sono stati forti, la mafia ha mostrato tutta la sua invincibilità.
Consolo, Bufalino, Pizzuto, Bonaviri, D’Arrigo, solo per fare alcuni nomi, i più noti tra gli scrittori siciliani. Ti senti dentro questa “traccia”, o sei alla ricerca di una lingua tua, forse ancora troppo poco siciliana, tu che hai cominciato a scrivere solo quando sei tornato a vivere sull’isola?
Credo si possa facilmente distinguere un filone siciliano barocco e un filone siciliano realistico. E’ evidente che i nomi che hai citato sono molto diversi per stile e linguaggio, e nessuno di essi si accosta ai maestri del realismo, quali Giovanni Verga e Federico De Roberto. Forse sono più vicini a Elio Vittorini, che io inserirei nel versante barocco. Per quanto mi riguarda, sono un adoratore di De Roberto. I Viceré è un romanzo bellissimo. Bufalino, invece, l’ho letto con molta attenzione, ma non sono riuscito ad apprezzarlo.
Le menzogne della notte (di Gesualdo Bufalino, ndr), però, è un libro bellissimo.
Ma guarda, è quello su cui contavo di più. Ha una struttura, un impianto geniale. Ma la scelta degli episodi, e quindi l’affresco generale che ne viene fuori, secondo me non funziona. Per cui dico grande genialità strutturale, ma il mio timore è che questo scrittore, grandioso nel linguaggio, manchi – come mi diceva un agente di custodia del Malaspina – di “sostanza”. E’ un’opinione personale, naturalmente. In fondo non ho mai amato una letteratura “gaddiana”.
Realismo, quindi, frutto delle tue osservazioni sulla terra di Sicilia, oppure realismo come cifra, come scelta stilistica?
Realismo come scelta, direi,visto che ho in mente anche storie che non sono siciliane. Purtroppo, sento che il mio linguaggio tende sempre più ad una stenografia dei fatti, mi fa paura che si “impoverisca” sempre di più, perché il lettore (e la critica con esso) non crede ai realismi. Come vedi, sono sempre costretto a difendermi quando ne parlo.
a cura di Dario Campione
(Pubblicato sul n°0 della versione cartacea, ottobre 1995)