Il 5 maggio 1993 viene denunciata alla polizia di West Memphis la scomparsa di tre bambini di otto anni. I loro corpi vengono ritrovati il giorno dopo in un torrente, nudi e legati con i lacci delle loro scarpe, particolari che da subito spingono la polizia e gli abitanti della piccola città nella convinzione che l’omicidio dei tre bambini sia la conclusione di un rito satanico. Non passa molto tempo prima che tre adolescenti del luogo, amanti della musica metal, della cultura dark e del culto di Satana vengano accusati del crimine e arrestati. La certezza della loro colpevolezza sembra essere largamente condivisa, ma c’è un investigatore privato che non crede a questa versione dei fatti. Spinto da motivazioni etiche, l’investigatore deciderà spontaneamente di indagare sul caso, prendendo le parti dei tre accusati.
Il caso dei Tre di Memphis è uno dei più celebri della storia giudiziaria statunitense. I modi in cui sono state condotte le indagini, la qualità spesso controversa delle prove che queste hanno prodotto, la giovane età delle vittime e dei presunti colpevoli ne hanno fatto oggetto di un continuo e acceso dibattito. Quando Atom Egoyan arriva ad occuparsene, sulla vicenda sono già stati realizzati quattro documentari: Paradise Lost I, II e III (a cura della HBO) e West of Memphis (prodotto da Peter Jackson). Anche a seguito dell’enorme interessamento mediatico, il caso è stato più volte riaperto ed il destino dei tre condannati è cambiato, fino alla scarcerazione avvenuta nell’agosto del 2011, dopo diciotto anni di carcere.
Con Devil’s knot Egoyan riparte dal giorno dell’omicidio e si ferma al momento della condanna dei tre ragazzi. Gli sviluppi processuali che sono seguiti vengono affidati ad una lunga spiegazione scritta, a film ormai concluso, prima dei titoli di coda. Probabilmente, quello che interessa ad Egoyan è provare a testimoniare una difficoltà, che è quella di stabilire un qualche tipo di verità, in mezzo alla molteplicità dei punti di vista, dei pregiudizi, delle prove inquinate o ignorate, delle infinite ipotesi. Sembra non essere interessato a fornire la propria versione dei fatti, perché quella è un’altra storia. Non si tratta dell’opinione in sé, ma del percorso che porta al formarsi di quell’opinione.
Partendo da questo presupposto, diventa più facile spiegarsi il modo in cui il film è stato costruito, soprattutto nella figura dell’investigatore privato (Colin Firth). L’investigatore intuisce che qualche cosa non funziona nel modo in cui sono state condotte le indagini e sente di dover fare qualcosa per evitare che tre ragazzi, che forse sono innocenti, finiscano in carcere a vita, o che vengano condannati a morte. Ciò che lo spinge ad agire ha più a che fare con la testa che con il cuore. La sua è allora una ricerca sempre sorvegliata dalla razionalità, che non si abbandona agli impulsi del sentimento. È in cerca di una strada, non di un punto d’arrivo. Per questo non può evitare di rispettare tutte le regole, di considerare i punti deboli delle proprie supposizioni. O di ammettere la mancanza di prove decisive a supporto di una tesi che ritiene comunque esatta. Il film segue la cautela della sua investigazione e ne viene contagiato. E’ difficile capire se si tratti di un atto di coerenza registica o di involontario dilagare del modo di essere di un personaggio sull’intera opera.
Ma anche a voler riconoscere a Egoyan la prima ipotesi, non si può non rilevare come con questa scelta si sia finito per perdere la possibilità di mostrare compiutamente le diverse parti che pure hanno giocato un ruolo importante nella vicenda. Come ingabbiato nel modo di porsi dell’investigatore, il film non riesce a cambiare passo quando sarebbe necessario, e cioè nei momenti in cui posa il proprio sguardo sui famigliari delle vittime, sulla comunità di West Memphis, sui tre ragazzi indagati e poi condannati.
Prima opera di finzione su quei tragici eventi, Devil’s Knot avrebbe potuto percorrere quelle strade che al documentario sono negate, mostrando ciò che c’è eppure non si vede, e mettendo in scena ciò che dall’altra parte può essere solo indicato, senza per questo sconfinare nel campo del inverosimile o dell’arbitrario. Se ne ricava allora un’impressione di eccessivo controllo, o forse sarebbe più giusto dire di eccessiva prudenza.
Resta ad ogni modo apprezzabile la volontà di porsi in maniera tanto critica di fronte ad un caso che anche troppo facilmente avrebbe potuto sconfinare nella enfatica proposta di una tesi. In questo senso, Egoyan non sembra dimenticare che, se gli ultimi sviluppi hanno ormai portato a ritenere ragionevole il considerare innocenti i tre ragazzi di Memphis, è ancora molta la strada che porta alla verità su quanto è successo quella notte. In questo senso la voce fuori campo di uno dei bambini uccisi è quasi un monito, quando afferma di essere l’unico a sapere cosa sia accaduto davvero.
Matteo Angaroni
Devil’s knot – Fino a prova contraria
Regia: Atom Egoyan. Sceneggiatura: Paul Harris Boardman, Scott Derrickson. Montaggio: Susan Shipton. Fotografia: Paul Sarossy.
Interpreti: Colin Firth, Reese Whiterspoon, Alessandro Nivola, Kevin Durand, Mireille Enos, Bruce Greenwood, Amy Ryan, Stephen Moyer.
Origine: Stati Uniti, 2013. Durata: 114′.