Aleggiava un demone bruno sulla notte delle stelle, corpi e volti erano più tirati che mai, tra emozioni contenute e sorrisi di circostanza a ricordare quanto friendly sia Hollywood quando si fa abbraccio caloroso. Comunque vada esserci è un successo per chi non ci è mai stato – Paolo Sorrentino, il primo dei nuovi divi – e per chi c’è già stato e continua ad accettare la sfida fosse anche in eterno, arrivando sempre a due centimetri dalla statuetta – Leonardo Di Caprio.
Accordato con le note del mito americano del traguardo che se può essere afferrato allora deve essere afferrato, il cinema accoglie il demone puntuale, lugubre come la fine del sogno, scritturato per fare da controparte alle scintille e alle lacrime immancabili, per scrivere un sottotesto che rinvia agli accidenti che trasformano il racconto in epica: la morte. Resnais se ne era appena andato, lasciando una traccia profonda che marcherà per sempre la Storia del cinema; Philip Seymour Hoffman aveva abbandonato il circo con un’uscita che non è più ad effetto dai tempi di John Gilbert e Lupe Velez. Può accadere, è accaduto e accadrà ancora, nonostante le cure di bellezza facciano scomparire per una notte i pensieri superflui.
Così, senza troppa meraviglia sfilano le statuine dorate, premiando giustamente le macchine produttive di 12 anni schiavo e Gravity (ci mancherebbe altro), la sceneggiatura di Spike Jonze (Her), la bravura dei trasformisti Cate Blanchett e Matthew McConaughey, l’intensa prova di Lupita Nyong’o, volto nuovo e grande bellezza arcaica, per cui varrebbe la pena rivedere il film di Steve McQueen. E forse, senza troppa meraviglia arriva la consacrazione del predestinato, che finalmente non sarà più secondo a nessuno, raggiunti i padri Fellini e Scorsese, perché adesso si parlerà di film alla Sorrentino, sperando che Sorrentino non continui a fare film alla maniera di Sorrentino.
La grande bellezza era stato annunciato dai Golden Globe. Anche se mai nulla è ciò che sembra, Nicola Giuliano (tra i produttori) racconta di esserci entrato in cinquina per un ripescaggio, cosa che poteva essere letta come un auspicio. Da quindici anni eravamo fuori dalle geografie del cinema che conta. Un film sullo squallore decadente dell’intellighenzia italiana, sullo sfondo di una Roma metafisica e onirica, dunque inesistente se non nei sogni degli artisti, quando arriverà più oltreoceano? Perché – così pare – è poi l’immagine che gli altri hanno di noi: ridicoli faccendieri, speculatori e filosofi della noia, poggiati a un passato glorioso, che pare non scaldare più i cuori e nemmeno drogare l’occhio.
Fa sperare in bene questo Oscar, come dice Roberto Cicutto, Amministratore Delegato di Luce-Cinecittà, perché La grande bellezza dimostra che l’unione fa la forza, vista la sinergia tra produttori della Indigo Film, imprenditori (ANICA), politica (Mibac, Mise e ICE) e sistema di promozione (LUCE-CINECITTA’) nel sostenere anche gli aspetti commerciali della distribuzione all’estero. Eppure di punti-di-non-ritorno da cui invece si è ritornati indietro ne abbiamo visti eccome nel sistema-Italia, soprattutto nella macroarea dell’industria culturale, che – per inciso – è un’industria sofferente. Che l’Oscar possa aiutare i privati a investire nel cinema (in quanti sono stati convinti dal Tax Credit?), o lo Stato a supportare i progetti innovativi prima che le certezze di una produzione che non farà passivi, è un’idea che balla in un festino su una terrazza nel quartiere Parioli e che, per emozionare, deve mescolarsi con molto molto champagne.
Comunque sia, complimenti a Paolo Sorrentino.
A.L.