La cultura artistica contemporanea è caratterizzata da una rete linguistica che agisce su più livelli. Da una parte, le arti visive dialogano con il cinema, la letteratura, l’architettura, la musica, il teatro, la danza, la televisione, lo sport e così via. Dall’altra, gli artisti usano diversi mezzi (disegno, fotografia, performance, installazione, video, suono), ricombinandoli spesso all’interno della stessa opera, interagendo con altri artisti o altri soggetti culturali, accogliendo opere altrui nella propria.
Le arti visive contengono casi di originali rivisitazioni o riletture cinematografiche o televisive, che vengono prelevate dal contesto d’origine e applicate a quello dell’arte. Tra questi livelli artistici emerge in particolar modo il rapporto tra arte e cinema, che sembra procedere su due percorsi. Da una parte, vi sono i riferimenti diretti al cinema; dall’altra, l’uso che gli artisti fanno del video. In questo modo il cinema viene utilizzato, in un certo senso “saccheggiato” e manipolato con il fine di creare un’opera in grado di stimolare e allo stesso tempo di attingere all’immaginario collettivo.
Per far sì che ciò avvenga gli artisti contemporanei si avvalgono di segmenti di “realtà cinematografica”, creando delle combinazioni tra i due ambiti che richiamano il metodo del collage.
Se il cinema è produttore d’immaginario, la televisione lavora e si sofferma sulla memoria, rendendo lo spettatore capace di comprendere meglio qualcosa che magari ha appena appreso. Similmente al cinema, anche la televisione offre validi e sempre aggiornati spunti sui quali l’arte può soffermarsi e creare una propria riflessione. Infatti, se la televisione si avvale della fiction, dei canali preposti alla spettacolarizzazione, l’arte ne segue l’esempio ricorrendo alla messa in scena e alla rivisitazione di qualcosa di già esistito in altri formati.
Come filo conduttore di queste teorie azzardo l’analisi trasversale tra la tentata rapina in una banca di Brooklyn avvenuta nell’agosto del 1972 , il film che ne ha tratto Sydney Lumet Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon) e, infine, l’opera The Third Memory di Pierre Huyghe, anch’essa tratta dal sopracitato avvenimento e dal film.
In un caldo pomeriggio dell’agosto del 1972, John Wojtowicz tentò di rapinare la filiale di Brooklyn della Chase Manhattan Bank con l’obiettivo di avere i soldi necessari per pagare l’operazione di cambiamento di sesso a Ernest Aron, l’uomo che amava e che si sentiva una donna intrappolata in un corpo da uomo. Una rapina che entrambi, John e il suo complice Sal Naturile, avevano progettato durasse non più di una decina di minuti, ma che finì per prolungarsi a quattordici ore e con la presa in ostaggio di sette impiegati della banca. Poliziotti, folle e telecamere resero John e il suo complice Sal delle superstar televisive. Trascorse le quattordici ore in questione, Sal fu ucciso dalla polizia nell’aeroporto JFK, mentre a John vennero dati vent’anni da scontare in prigione.
Alcuni anni dopo, nel 1975, Lumet diresse il film interpretato da Al Pacino nella parte di John Wojtowicz.
Lo stesso Wojtowictz, un paio d’anni dopo l’uscita di Quel pomeriggio di un giorno da cani nelle sale cinematografiche, espresse il suo parere e più precisamente il suo disaccordo in merito all’opera, rivolgendosi a uno degli editori del New York Times che invece tanto l’aveva apprezzata:
“I felt the movie was in essence a piece of garbage. It did not show the whole truth, and the little it did show was constantly twisted and distorted, I estimate the movie to be only 30% true” (Real Dog Day hero tells his story, Jump Cut n.15, 1977).
L’editore del Times William H. Honan rispose a Wojtowicz brevemente e in modo brutale:
“I’m very sorry to say no to this after all of our correspondence, but this just won’t work for us. The problem is that I just don’t believe you have profoundly come to grips with the motives for your crime, and the complex relationship between art and reality in this instance”.
“La complessa relazione tra arte e realtà”: forse è stata proprio quest’ultima frase ad ispirare e a convincere l’artista Pierre Huyghe della creazione di The Third Memory nel 2000. Ciò che ispira Huyghe (ed emerge in modo chiaro dalle sue opere) è la ricerca costante di una modalità con cui alterare un contesto reale inserendo delle immagine fittizie. Attraverso questi meccanismi l’artista vuole creare singolari forme di celebrazione del presente.
Decide, così, di invitare John Wojtowicz, in libertà vigilata dal 1979 per raccontare la sua versione dei fatti davanti ad una telecamera. L’incontro tra i due consente la creazione di The Third Memory, un’installazione che consta di due proiezioni.
Per far sì che John abbia la possibilità di raccontare la sua “vera storia”, Huyghe decide di costruire un set che ricrei la scena del crimine, all’interno del quale John dirige le comparse presenti spiegando loro i loro ruoli, posizioni e battute.
Chi ha visto Quel pomeriggio di un giorno da cani, non può fare a meno di accostare le due opere, confronto questo, che Huyghe facilita inserendo spezzoni della versione cinematografica in una delle due proiezioni. Trascorsi i nove minuti e mezzo che costituiscono il film, Huyghe fornisce allo spettatore un terzo livello di rappresentazione, proiettando alcuni secondi tratti da una ripresa televisiva che mostra la vera scena del crimine. La chiave per comprendere l’installazione/performance, è considerare la portata con cui il ricordo di John Wojtowicz della rapina si fonde con il suo ricordo del film. Le tre memorie messe in atto da Huyghe sembrano sottolineare proprio questo: la “prima memoria” è costituita dalla diretta percezione di Wojtowicz riguardo all’evento, influenzata poi da come è stato ripreso dai media televisivi; la “seconda memoria” è costituita dal ricordo che il pubblico ha del film di Lumet, sebbene lontano dalla realtà; la “terza memoria” infine è rappresentata da ciò che Huyghe ci mostra attraverso le sue proiezioni: la complessa interazione tra i media e la memoria, talmente coinvolgente da far usare spesso a Wojtowicz delle espressioni del tipo “in the real movie…”.
Appare quindi chiara la capacità dell’artista di sfruttare un materiale preesistente, rivisitandolo in modo tale da fargli acquistare ancora più veridicità tanto che è difficile comprendere cosa sia effettivamente reale e cosa invece non lo sia: amplifica una finzione senza però costruirla; costruisce un mondo senza però documentarlo.
The Third Memory non è quindi un documentario canonico, ma un film in grado di tradursi in un perfetto testimone della realtà. Avvalendosi dei concetti di tempo, memoria ed esperienza quotidiana, Pierre Huyghe configura la tradizionale dicotomia tra arte e vita e, per questo si potrebbe affermare che il vero soggetto della sua opera sia una percezione che si sostanzia tra la realtà e la sua rappresentazione: un remake che ha il fine di assumere i media stessi come oggetto di analisi e di sottoporre la loro funzione di mediazione ad una tagliente critica.
Manuela Mesrie