Se l’invisibilità di certi titoli suona come un delitto impunito, non perdete l’occasione di cercare Holy Motors in una sala periferica di un grande centro urbano. Il tempo gioca a sfavore, perché non farà grandi numeri e il rischio di non vederlo in programmazione una seconda settimana è grande. La Movies Inspired di Jacono e Coggiola mettono in circuito il capolavoro di Leos Carax prendendosi dei rischi (ma è nella loro natura) per inserirsi in un mercato difficile perché impoverito dall’arrogante lottizazione delle sale concertata dalle big company, che preferiscono andare sul sicuro (o quasi) con titoli di richiamo.
Dopo aver ben figurato a Cannes 2012 (c’è chi lo avrebbe voluto Palma d’Oro) e a Torino, raccolto critiche lusinghiere ovunque, Holy Motors attende adesso l’impatto col pubblico. Due righe di trama andrebbero pur scritte, cercando, senza intimorire il lettore, di suggerire senza troppo nascondere una struttura narrativa fuori canone, costruita per quadri astratti in una cornice che ha la forma di una limousine bianca, alla terza apparizione importante nel cinema dell’ultima stagione: Von Trier ci ha traghettato la coppia di neosposi verso l’inferno di Melancholia, per incastrarli senza via d’uscita ancora prima dell’annuncio della fine del mondo; Cronenberg (e De Lillo) in Cosmopolis vi ha chiuso all’interno la follia della finanza sciacalla, metaforizzando il crollo dell’occidente. Adesso la smisurata bara bianca processa la crisi dell’io, fungendo da camerino mobile per un Mister Oscar enigmatico, che per lavoro (quale lavoro? si accettano ipotesi) cambia identità in continuazione: un trasformista capace di interpretare centomila ruoli e al tempo stesso essere nessuno. La limousine come simbolo della catastrofe incombente, della dissoluzione del tempo collettivo e individuale e del disorientamento conseguente. Nel film di Carax lo spazio interno non è moltiplicato come in Cronenberg (una casa ipetecnologica in cui consumare ogni tipo di attività), ma funge da laboratorio delle mutazioni per un uomo (impersonato da Denis Lavant) che non siamo sicuri essere mai ciò che sembra. Da affarista a mendicante, da freak assassino a vecchio morente, a doppio di sè a simulacro di una realtà virtuale, a primo ominide sulla terra, Mister Oscar trattiene la follia di un racconto che si frantuma in un’infinità di racconti, ma senza soluzione cronologica.
E ancora della trama non abbiamo raccontato nulla, perché ciò che rimane sono sensazioni più che un discorso che fila dritto. Strettamente imparentato con Lynch, Holy Motors vive la contraddizione della vita dopo il cinema o – dovremmo dire – dopo la consacrazione della società dello spettacolo che la vita se l’è inghiottita, confondendo il confine tra realtà e finzione sotto tonnellate di sabbia. Del resto ci sarà una ragione se il film inizia con la cronofotografia di Marey (progenitrice del cinematografo, 1882), continua con lo stesso regista che si sveglia, apre una porta a muro e si ritrova in una sala cinematografica dove il pubblico impassibile guarda un film. Che è poi il film che stiamo guardando anche noi, una storia che ne contiene altre, in un cinema che è spazio mentale dell’autore (ripensiamo a Mulholland Drive), macchina dell’inconscio, dell’impasto di suggestioni culturali (non solo cinematografiche) che tentano di dare corpo all’avventura di un racconto, ma che invece finiscono per somigliare all’intervallo tra una novella e un’altra (non per nulla si cita anche il René Clair di Entr’acte, cinema delle avanguardie anni 20, sospeso tra dada e surrealismo). Quando la notte sembra chiudere i cicli di vite di Mister Oscar, si aprono gli episodi più struggenti del film, che vedono il camaleonte in relazioni con tre donne diverse (tra le quali Kylie Minogue), emanazioni del passato e del presente incerto che finiscono per dissolversi in tre morti diverse (e non sempre esplicitate).
E’ il caso di fermarsi qui, di lasciare allo spettatore le sorprese migliori, il succedersi di citazioni, la decriptazione di passaggi da fiaba morale, soprattutto il finale che risponde alla domanda di De Lillo, nel personaggio di Eric Packer: dove vanno a dormire le limousine?
Alessandro Leone
Lo strano oggetto
Se un film sia bello o meno è anche questione di gusti, o di educazione al gusto. Quando un film è importante è invece indiscutibile. Quando è da vedere, almeno per chi è interessato o appassionato al cinema, pure. Holy Motors di Leos Carax rientra in tutte e tre le categorie. È un film di quelli che capitano di rado, quanto meno nel cinema contemporaneo. Un’opera complessa e vasta, zeppa di riferimenti e citazioni e, per giunta, per nulla intellettuale, ma riflessiva e fisica, che ripensa al passato, guarda al futuro e insieme è molto calata nell’oggi. Uno di quei casi nei quali si può parlare di capolavoro senza farsi troppe remore.
Holy Motors resta un oggetto strano, da maneggiare con cura, ma allo stesso tempo affascinante come pochi. Una pellicola che fa ancora sperare nel cinema, che fa sperare che si possano realizzare imprese così fuori dagli schemi, inventive e visionarie pur avendo e rendendo visibili le radici, ben profonde nel passato. Là, nelle origini, stanno i presupposti del cinema del futuro. E la cronofotografia di Etienne-Jules Marey è l’antenato dell’odierna motion capture.
Holy Motors, il titolo deriva dalla società che noleggia limousine, è il ritorno di Carax al grande schermo 13 anni dopo Pola X. Un lungo periodo di meditazioni, tragedie personali e tre soli corti, tra i quali Merde! che fa parte del collettivo “Tokyo” e nel quale aveva tratteggiato uno dei personaggi che ritorna nell’ultimo film.
Classe 1960, Carax fu negli anni ’80 l’enfant prodige del cinema francese con Boy Meets Girl (1984), Rosso sangue (1986) e Gli amanti del Pont-Neuf (1991), sempre con il suo attore feticcio e alter ego Denis Lavant. Un attore trasformista che stavolta ha la sua consacrazione con la possibilità di stare in nove personaggi diversi, le tante vite possibili del protagonista, tutte chiuse nella giornata lungo la quale si svolge la storia. Anche il regista si mette in gioco: è lui all’inizio ad alzarsi da letto, attraversare delle stanze e finire dentro una sala cinematografica dove tutti gli spettatori dormono. È Carax che si riprende da un letargo artistico? È il cinema di oggi che fa dormire? Sono gli spettatori poco interessati e disponibili? Tocca a chi guarda provare a rispondere. Di certo Holy Motors è un grande inno alla vita, che sa sempre rinnovarsi, e un film meta-cinematografico, un’opera teorica e insieme molto tattile e visiva e ritmica. Una pellicola dadaista e visionaria, un inno alla creatività e all’immagine. Un bello che non ha paura del brutto, dello sghembo, dello scorretto e della merda per trovare la sua bellezza.
Un racconto che procede a blocchi, con un ritmo irregolare, con momenti quasi di pausa e vertiginose accelerazioni, nervoso (e acrobatico) come i movimenti del protagonista. Lavant è monsieur Oscar (tutto un programma fin dal nome, sia per il premio sia perché il vero nome di Carax è Alexandre Oscar Dupont) dipendente della Holy Motors, società che fornisce “uomini per tutti i desideri”. Oscar deve trasformarsi in tante persone, una più estrema o bizzarra dell’altra: una vecchia mendicante, un industriale, un assassino, un mostro, un fauno, un acrobata, un padre di famiglia, un anziano moribondo e così via.
Dal mattino a mezzanotte, lo si segue mentre si sposta in limousine per Parigi guidato dalla fedele e algida Céline (Edith Scob, attrice di Occhi senza volto di Georges Franju, anche questo più volte omaggiato nel film): la spaziosa auto è il mezzo per raggiungere gli appuntamenti, ma anche un camerino per i trucchi dell’attore e l’ufficio dove ricevere gli ospiti. Metafora dei trucchi del cinema (come l’insistere su sangue, manichini, cicatrici, barbe e baffi finti e parrucche) – del resto una delle tappe è lo studio dove regala gesti a una macchina che li trasformerà in immagini digitali ma acrobatiche – e del lavoro dell’attore, uno nessuno e centomila. Un uomo che insegue la bellezza del gesto, che raggiunge l’apice rapendo la bellissima Eva Mendes da un set.
Possibilità di futuro, fantasmi del passato ma anche presenze concrete, come la figlia adolescente, che scappa intimidita da una festa di coetanei, che incontra su una piccola Peugeot rossa che contrasta con il lusso e gli spazi della limousine. Ma al ritorno a casa la sera, Oscar non trova la figlia ma due misteriosi scimpanzè alle finestre. Un rimando fantastico a Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul?
Una sinfonia visiva, da seguire con gli occhi tutta d’un fiato senza pensare troppo, deformazioni delle immagini con colori acidi, con momenti quasi di pausa e riprese vertiginose di ritmo. Non si sa dove voglia andare Carax, dove voglia trasportare lo spettatore, mentre Céline sa sempre fin dove si va. La limousine è un mezzo di trasporto ma anche un luogo della mente: le uscite possono essere reali, immaginate, temute (non mancano riferimenti e assonanze e contrasti con Cosmopolis di Don DeLillo) o agognate.
Holy Motors è un flusso di pensieri e di suggestioni visive sulla vita e la morte (“non ci sentiamo mai così vivi come vedendo un altro morire”), sulle tante vite possibili con echi da Pirandello a Mr. Nobody di Jaco Van Dormael, di allucinazioni lynciane e citazioni di Jean Renoir. La storia diventa straziante quando appare Jean/Kylie Minogue nei magazzini Samaritaine, gli stessi de Gli amanti del Pont-Neuf. La cantante australiana è una donna disperata per amore, canta Can’t get you out of my head e Who Were We? scritto da Carax e Neil Hannon dei Divine Comedy, che ha composto la colonna sonora. Il personaggio di Jean è ispirato alla compagna di Carax, l’attrice russa di Pola X Katya Golubova, morta nel 2011 e alla quale la pellicola è dedicata.
Nell’intermezzo, che cita il René Clair di Entr’acte, Oscar abbraccia la fisarmonica e improvvisa un brano trascinante dentro una chiesa gotica. E Michel Piccoli, proprio colui che era stato monsieur Simon Cinéma ne Les cent et une nuits di Agnès Varda nel ’95 (un film per i 100 anni dell’invenzione dei Lumière, un grande capolavoro mancato che è utile vedere per capire qualcosa in più del film di Carax), gli parla del cinema e delle videocamere di sorveglianza. Una sarabanda di citazioni con un finale indimenticabile, nell’hangar dove le limousine vanno a riposare. E, come gli uomini e le donne, prima di addormentarsi hanno qualcosa da confidarsi tra paure e stanchezze. E chiedono il silenzio per riposarsi.
Nicola Falcinella
Holy Motors
Regia e Sceneggiatura: Leos Carax. Fotografia: Yves Cape. Montaggio: Nelly Quettier. Interpreti: Denis Lavant, Edith Scob, Michel Piccoli, Kylie Minogue, Eva Mendes. Origine: Francia/Germania, 2012. Durata: 110′.