Un film che punge gli occhi
La grande bellezza è un film del quale si è detto moltissimo prima dell’uscita e delle proiezioni in anteprima. Una trovata di marketing che ha forse un po’ inquinato l’obiettività del giudizio critico, a partire da un esagerato accostamento prematuro al capolavoro felliniano La dolce vita.
Jep Gambardella (Toni Servillo) è un prestigioso giornalista culturale, nonché autore del bellissimo romanzo “L’apparato umano”, uscito decadi prima e rimasto opera unica del talentuoso romanziere. Jep sa di essere speciale nel suo essere il re della vita mondana romana e si sente in diritto di giudicare l’umanità che lo circonda, offrendo giudizi cinici e nichilisti. In lui però si tormenta un’anima che cerca il senso profondo della spiritualità e della bellezza attraverso lunghe passeggiate in una Roma stranamente vuota, bagnata dalle prime luci dell’alba. Le sue notti fatte di chiasso e volgarità non gli bastano più, così Jep tenta di scoprire il mondo durante le ore della giornata, fatto di persone autentiche e di problemi veri. Nella vita di Jep entra una spogliarellista over 40, interpretata da una drammatica Sabrina Ferilli. Creatura del desiderio di notte, amica sincera durante il giorno. Di giorno si trova inoltre il tempo di aiutare il drammaturgo in cerca d’ispirazione per la sua commedia (Carlo Verdone). Ancora di più il giorno serve a ripescare i fantasmi del passato, il ricordo delle notti fresche sul mare in compagnia del primo amore.
Sorrentino torna a girare in Italia dopo This must be the place e si affida ad una sua ispirazione, una sua visione della capitale. Roma sembra essere la vera protagonista del film, una sorta di Sodoma che però racchiude in sé il seme della rinascita. L’opera risulta profondamente manierista, a tratti forse un po’ stucchevole, soprattutto a causa di una sceneggiatura scritta dallo stesso Sorrentino e da Umberto Contarello, che non sempre risulta adatta alle esigenze del film, anche a causa di una struttura narrativa a episodi nella quale però manca un cuore tematico ben identificato e alla ripetitività dei dialoghi. Il genio di Sorrentino si manifesta invece in una regia molto profonda che saprebbe già autonomamente veicolare il suo messaggio. Alcune scene (quelle meno dialogiche) sono infatti estremamente potenti. Su tutte, quella nella quale una nobile decaduta osserva in un museo la propria culla e ascolta la storia della propria famiglia attraverso l’audioguida. Co-autore del film è il direttore della fotografia Luca Bigazzi, che riesce a gestire in maniera quasi perfetta i complessi movimenti di macchina. I primi minuti nei quali si racconta Roma, fatti di attimi di vita rubati sotto il suono di un coro religioso, racchiudono già la chiave di volta del film e mettono in luce le esigenze espressive di Paolo Sorrentino e il talento di Bigazzi.
Merito di Sorrentino è anche quello di saper dirigere e scegliere ottimamente gli attori. Naturalmente il ritorno in Italia ricuce la storica collaborazione con Toni Servillo, bravissimo nell’interpretare l’enigmatico e tormentato re dei mondani. Anche Carlo Verdone offre un’interpretazione drammatica, per lui veste quasi inedita, piuttosto interessante. Ritroviamo Sabrina Ferilli in una figura melanconica, alla quale l’attrice riesce a dare un corpo molto personale.
Fin dai primi assaggi in anteprima quest’opera è stata accostata alla Dolce vita, probabilmente a causa dell’ambientazione romana e del tema narrato, ma se il capolavoro di Fellini era intimo ed incisivo, il lavoro di Sorrentino non ha un riscontro con una qualche realtà oggettivamente indagabile. Quello che il regista de Il Divo tenta di raccontare con la sua nuova pellicola è una visione, una proiezione mentale della società che lui ha costruito. Volendo proprio fare un paragone autorevole La grande bellezza, con i suoi personaggi talmente imborghesiti da non riuscire più a sentire sensazioni umane ed incapaci di esprimere emozioni a causa dei muscoli troppo irrigiditi dal botulino, ricorda forse maggiormente L’avventura di Michelangelo Antonioni e i suoi modelli di una borghesia incartapecorita.
Proprio questo sguardo così personale e le imperfezioni della struttura narrativa hanno impedito all’opera di ricevere riconoscimenti a Cannes. Le ambizioni filosofico-esistenziali de La grande bellezza sono risultate probabilmente eccessivamente ambiziose alla giuria del Festival, ma hanno inaspettatamente stuzzicato l’interesse del pubblico italiano e non. Infatti nel primo weekend, il film ha battuto Il Grande Gatsby nella battaglia del botteghino. Che il cinema italiano sia finalmente pronto per una svolta verso film di alto valore artistico?
Giulia Colella
Nel ventre dell’architetto
La Scala Regia è l’illusione della profondità, confessa all’occhio un camminamento che predispone il corpo alla salita, di fatto meno faticosa. Una prospettiva accentuata è un trucco, uno scherzo architettonico, l’invito con sorpresa che induce i sensi allo stupore dell’imprevedibile. “Sembra lunga” – dice Ramona (Ferilli), colta un po’ bambina nell’apostrofare col suo corpo ancora tonico colonne e gradini del Palazzo Apostolico. E’ lì, perenne sfida al tempo che invecchia e uccide e, talora, invecchia e uccide la giovinezza impastandola con le illusioni di un godimento eterno. Proprio lì, immota e illusoria: Roma, svenata dal traffico, simbolo del transito fugace e aleatorio, qui spazzato via dal transito altrettanto aleatorio di Paolo Sorrentino, che per applicare il teorema della sua macchina cinematografica, cancella qualsiasi presenza umana dall’Urbe, che non sia portatrice di anomalie e mostruosità. Ragione pratica di racconto a tesi, per cui la città si fa teatro non buffo, ma grottesco: territorio dove stanziano ectoplasmi inorriditi dalla mediocrità della norma, costretti dunque a occupare gli spazi della Storia dell’arte con corpi che non lasceranno traccia, se non nella misura in cui molestano con riti orgiastici il silenzio divino ai margini del Colosseo.
Ville e palazzi sono convitti declassati dalla barbarie del presente o dall’indifferenza degli ultimi abitanti ottuagenari in attesa di chiamata. Un sanpietro laico e affidabile ne possiede le chiavi e ne apre gli scrigni all’unico mondano che ancora cerca la bellezza smarrita. Gep percorre con sguardo indagatore la morte al lavoro, sbuccia la fasulla aristocrazia contemporanea e ne assapora la polpa nei festini che aprono e chiudono le notti da sballo: trenino dopo trenino sulle note di musica burina, volgare. Ma spremi spremi, il succo è sempre più acre. L’idea di bellezza non si palesa lontanamente nella meschinità di attricette, presunti letterati, colti politicanti, porporati cuochi, e tutto il bestiario ahimè poco nuovo, anzi fastidiosamente ridondante, che Sorrentino mette in pista come se riscoprisse ogni volta il vaso di Pandora. Ma quale inferno cita questo inferno che già non fu Sodoma pasoliniana, o dissoluzione del maestro Antonioni (Fellini nemmeno vorrei più citarlo)? Senza sarcasmo alcuno, Sorrentino ricicla Gep da una discarica di anonimi “signor qualcuno”, facendone perno di una narrazione che non sa essere mai maestosa, soprattutto quando pretende di elaborare una filosofia che non potendo fare etica, cerca quanto meno di essere estetica.
Sfuggita per sempre all’utopia di città eterna, Roma soffre come ospite nelle architetture del regista napoletano, che per mandato (suo, personale) ubriaca con movimenti di macchina che vorrebbero ribaltare le logiche degli spazi (come fu, per non citare che un esempio, nel concerto di David Byrne in This must be the Place) tanto nella bolgia delle feste a base di cocaina, quanto negli esterni assolati limitrofi al Vittoriale. Il cinema di Sorrentino rischia di dissolversi come uno schizzo di Etienne Boullee: un progetto che non può farsi sostanza. Questo ventre colmo inebria i sensi e disorienta, fino a togliere letteralmente il respiro: una sorta di droga a cui è inutile opporre resistenza. Ogni inquadratura del film sembra ragionata per moltiplicare i barocchismi di Bernini o le curvature di Borromini, divorando i personaggi, piuttosto schematici, eccezion fatta per Gep, già divorato da Servillo che ormai veste uno sull’altro tutte le sue ultime maschere, ma amplificate a dismisura. Un uomo in più che non fa la differenza.
Per questo Roma non può che essere metafisica, per cui persistente in una realtà immaginata come collage di punti di osservazione purificati. Quadri senza racconto avvincente. Anche se Gep trovasse la bellezza e riprendesse a scrivere, sarebbe davvero un romanzo a disintossicarlo dal vuoto? Ma poi, interesserebbe davvero a qualcuno l’apologia del bello descritta con retorica pedante da un dandy che gode nel fingere di godere (con presunzione arrogante), ma che intimamente sogna libertà oceaniche e si illumina di fronte al “sorriso” santo di una missionaria di cent’anni? Salire in ginocchio la Scala Santa e scoprire che la vita nasconde profondità che potrebbero essere colte, se solo lo volessimo! Ma poi, com’è che invece raramente lo vogliamo?
Insomma, lo schermo brucia piano e diffonde odore di racconto morale sul degrado della povera Italia imbalsamata. Se altro c’è (e di sicuro ci sarà, basterà far passare del tempo) non converrà cercare passeggiando in direzioni appena sussurrate: Céline e Flaubert, citati, galleggiano insieme ad altri oggetti citati in cerca di un ordito che ne impressioni il senso. Invece tutto è deriva. Tutto agghiaccia terribilmente. Forse questo doveva essere: un sistema geometrico che creasse l’illusione del bello, per rivelarsi irrimediabilmente fatuo.
Il Tevere è un letto riposante. Almeno questo è vero nei titoli di coda.
Alessandro Leone
La grande bellezza
Regia: Paolo Sorrentino. Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Cristiano Travaglioli. Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Giorgio Pasotti. Origine: Italia, Francia, 2013. Durata: 142′.