Sebbene ami Sokurov da molti anni, confesso di aver accolto la notizia dell’uscita di questo film con un certo timore, non solo perché considero il Faust uno dei monumenti letterari di più difficile trasposizione cinematografica, ma soprattutto per avere ancora viva nella memoria la profonda delusione, provata anni or sono, a seguito della visione di un’altra traduzione sul grande schermo di un’opera di Goethe; mi riferisco a Le affinità elettive dei fratelli Taviani, la cui totale mancanza di caratterizzazione psicologica dei personaggi, logica conseguenza di una stucchevolezza di fondo a tratti imbarazzante, rappresenta per me un trauma non ancora del tutto superato. Non mi dilungo oltremisura, quantunque non possa fare a meno di rimarcare l’approccio eccessivamente didascalico e l’insopportabile sudditanza al testo cui è spesso soggetta la cinematografia italiana di fronte a opere letterarie importanti; tutti aspetti che denunciano un’evidente carenza di creatività e gravi limiti narrativi, specie nel trattare il filone del “liberamente tratto”. Non è nelle corde del nostro Cinema, non c’è niente da fare.
Il film di Sokurov è certamente di un’altra argilla e lo si capisce dalla scena iniziale, in cui il dottor Faust e il fedele aiutante Wagner sono colti nell’atto di dissezionare un cadavere, con le mani immerse nelle viscere semidecomposte della carcassa, alla ricerca disperata di chissà quale segreto nascosto, di chissà quale prezioso tesoro. La fotografia cupa, la crudezza dell’ambientazione, i dialoghi profondi, e allo stesso tempo pregni di ironia, «danno luogo», per dirla con Sant’Ignazio di Loyola, a un incipit perfetto, facendo immergere immediatamente lo spettatore nell’atmosfera autentica dell’opera goethiana. Cosa anima, infatti, la curiosità di Faust? cosa determina i suoi ossessivi interrogativi sulla materia e sullo spirito? Forse la ricerca dell’origine della vita? il contenuto nascosto della ghiandola pineale? lo svelamento dell’organo preposto all’asilo dell’anima durante la transizione terrena? o più semplicemente, come dichiarerà in seguito lo stesso Mefistofele alias “Mauritius l’usuraio”, l’agire in sé, la tensione appetitiva fine a se stessa, scevra da qualsiasi obiettivo concreto? Sono tutti interrogativi che il regista, fin dal primo quarto d’ora di film, sa rendere snervanti, ossessivi, quasi claustrofobici, grazie a un lirismo di immagini e musiche di rara suggestione.
Con il quarto e ultimo capitolo della cosiddetta Tetralogia – della quale fanno parte Moloch (1999), Toro (2001) e Il sole (2005) –, il regista russo è entrato a pieno titolo nell’Olimpo dei migliori registi di sempre. In quest’ultima fatica ha l’indiscutibile merito di aver saputo afferrare l’essenza del Faust letterario, traducendone i caratteri debordanti e fiabeschi in immagini difformi, sovraccariche, simili alle effigi demoniache scolpite su timpani e capitelli delle chiese medievali. È il demone dell’attivismo, infatti, a tormentare il melanconico dottore, un istinto che lo consuma materialmente e spiritualmente, tanto da impedirgli di gioire in modo appropriato di ogni conquista raggiunta. Egli sembra condannato a vivere un’eterna sospensione emotiva, a metà tra l’euforia trionfale per la nuova scoperta ottenuta e l’insoddisfazione melanconica per quella che sente spasmodicamente di non essere ancora riuscito a raggiungere.
L’improvviso desiderio per la giovane Margarete rientra perfettamente in questa pulsione ambivalente di esaltazione e frustrazione, sintetizzata mirabilmente in una delle sequenze finali del film in cui Faust, dopo essere riuscito a possedere carnalmente la fanciulla, non soddisfatto dello scopo raggiunto, si sofferma con bramosia a sfiorarle il corpo dormiente, fissando lo sguardo inquieto sull’acerbo pube biondo, quasi a volerle penetrare il grembo, luogo dove ha origine la vita, con l’intelligenza e la logica, oltre che col sesso, mentre all’esterno della casa un gruppo di goffi demoni-voyeurs giostra istupidito, osservando la scena dalla finestra; il tutto realizzato con un uso sofisticato delle immagini, sapientemente accostate alla forza dirompente della musica di Bach, senza la necessità di dover ricorrere a voice over di sorta a sottolineare superfluamente ciò che il personaggio sta pensando. A questo proposito, ritengo doveroso menzionare la convincente interpretazione dell’attrice Isolda Dychauk, la quale, con delicatezza e bravura, riesce a evocare con efficacia, senza esagerazione, l’immagine di pura, e parimenti maliziosa, ingenuità tipica dell’età adolescenziale, ponendo il proprio conturbante candore in giusto contrasto con l’oscuro e deforme universo che la circonda.
Sokurov, tuttavia, non si limita soltanto a mettere in scena tali ambivalenze emotive, ma lo fa ponendo insistentemente l’accento su quello spirito grottesco, potremmo quasi dire infantile, che così fortemente caratterizza l’opera di Goethe e che pone il tema del tormento faustiano su un piano spiccatamente caricaturale, al limite dell’assurdo. Come opportunamente osserva Italo Alighiero Chiusano nell’introduzione all’edizione Garzanti del Faust e dell’Urfaust, «si direbbe che Goethe, col suo capolavoro, è partito dal teatro dei burattini quand’era ancora un ragazzetto a Francoforte, e ci è tornato, attraverso la magia della fiaba, quand’era ormai pluriministro e un nume culturale, al termine di una lunga e ricchissima vita».
Grazie a una sensibilità che non si appaga di elementi didascalici, né di asservimenti pusillanimi al soggetto, forme e scenari del film di Sokurov, proprio come accade nel teatro dei burattini, prendono magicamente a deformarsi, ad assumere profili contorti, raccapriccianti, al limite del ridicolo, mettendo in sarcastica evidenza il tragico non sense del vivere umano e della folle brama di verità che tormenta il protagonista. Così operando, il regista russo si pone su un altro piano rispetto allo stesso Murnau, il cui film omonimo del ‘26 – un altro capolavoro assoluto –, con la sua epicità apocalittica, la tematica della redenzione, il gusto spiccatamente manierista, appare più legato all’immaginario di Marlowe e dell’Urfaust, oltre che alle inquietudini del complesso periodo storico nel quale è stato realizzato.
Sokurov ha altri obiettivi. Il peccato di Faust, infatti, non consiste strettamente nella curiosità morbosa che lo attanaglia, nel «tormento critico» del proprio agire scientifico, e neppure nell’incapacità di trarre profitto dalle proprie scoperte, quanto piuttosto nel non riuscire a elevarsi dal contesto in cui opera, nel non saper ridere di sé e dell’incoerente divenire che si dispiega davanti ai suoi occhi. Egli è sempre affamato – il tema della fame ricorre in tutto il film –, avido di sapere; e tuttavia, soddisfacendo i propri impulsi, indagando la materia nei suoi aspetti più reconditi, formulando sempre nuovi perché, finisce per rimanere imprigionato nel labirinto di quella stessa fisicità che si propone di svelare, nelle strette fibre della carne, le quali sembrano sovrapporsi sempre più le une alle altre, come sottili strati di cipolla, così da celare beffardamente allo sguardo profano ogni indizio escatologico e teleologico.
«Le gente pensa che l’inferno sia fatto per i buoni e il paradiso per i cattivi, ma questo è un grande errore», dichiara a un certo punto Mauritius. Da ciò si comprende che la Creazione non è che un gigantesco paradosso, un insieme di fatti e avvenimenti del tutto contraddittori, scollegati tra loro e, in quanto tali, inconoscibili dall’intelletto. Persino l’eccentrico Wagner sembra aver preso coscienza di questo bizzarro segreto esistenziale quando, all’inizio del film, esprime lo stravagante desiderio di veder scomparire il mondo e, allo stesso tempo, di poter passare più tempo in compagnia all’adorato maestro. Facendogli notare la contraddittorietà dell’affermazione – «come faresti a vedermi più spesso se il mondo non esistesse più?» – Faust dimostra di muoversi su un altro piano semantico, di non essere cioè capace di distinguere la Phisis dal Nomos, ossia la legge della natura – prettamente meccanicistica, che vuole necessariamente il prevalere del più forte sul più debole – dalla legge dell’uomo, vale a dire la fantasia, l’artificiosità del pensiero creativo, al di fuori della consequenzialità causa-effetto, da cui deriva la vera liberazione dalle crudeli regole del vivere quotidiano.
Non comprendendo il valore della finzione, dell’assurdo, in una parola, dell’arte, Faust non riesce a svincolarsi dalle logiche dell’essere; non sa prendersi gioco della realtà, finendo inevitabilmente per struggersi nell’angosciosa ricerca di un senso ultimo che non c’è e che non può essere trovato.
«Vado là, là… oltre, oltre e oltre!». Sono le ultime parole del protagonista nell’atto di spingersi nell’ulteriore metafisico eterno, al di là dei confini stessi dell’esperienza fisica, al di là del tempo, al di là la vita.
È questo il dramma del tormentato dottor Faust; è questo il dramma dell’uomo.
Manuel Farina