Lei è uno dei fondatori di MyMovies, che attualmente è il primo portale di cinema online in Italia, com’è nata quest’avventura?
MyMovies nasce dalla volontà di riversare su una piattaforma online il dizionario Farinotti, per il quale lavoro da ormai quindici anni e che ha la caratteristica di recensire tutti i film usciti, senza operare una selezione come avviene per il Mereghetti ed il Morandini. Eravamo una piccola redazione che aveva sede nella periferia di Firenze, mentre ora siamo in centro e grazie al collegamento con la società Mo-Net, che da dieci anni gestisce il sito, siamo cresciuti fino ad arrivare all’immenso archivio che abbiamo oggi.
Ogni anno approdano sul web numerosissimi siti di cinema, quali sono i limiti e le frontiere inesplorate della critica cinematografica odierna?
Il problema della critica cinematografica è che risulta spesso autoreferenziale, nel senso che non cerca di catturare l’interesse di nuovi lettori, ma persiste nel tentativo di compiacere sempre e solo il pubblico che ha già. Non esiste un luogo nel quale si accolgano diverse opinioni su un film. Fino a due anni fa MyMovies riportava l’intera rassegna stampa oltre alla nostra recensione di un film, poi abbiamo dovuto smettere per motivi legati al copyright ed è venuto a mancare uno spazio aperto, di confronto oserei dire.
Lei è autore di un libro su Eric Rohmer, secondo lei quali elementi del cinema di Rohmer appartengono tipicamente alla Nouvelle Vague e quali se ne distanziano?
Rohmer aveva un modo di fare cinema molto personale, pur mantenendo il contatto con gli altri esponenti della Nouvelle Vague se ne distanziava per la capacità di non farsene eccessivamente condizionare. Per esempio non era esibizionista, contrariamente a Godard, esistono giusto due foto di Rohmer. Io però una volta ho avuto la fortuna di vederlo dal vivo, quindi posso testimoniarne l’esistenza. Amo il fatto che non abbia mai smesso di guardare alla realtà per i suoi film e che anche da vecchio abbia sempre saputo dar voce ai giovani. Certi dialoghi di protagonisti ventenni, ma scritti da un Rohmer settantenne sono di un realismo incredibile. Un vampiro, che succhiava la linfa della gioventù ai suoi studenti e la tramutava in poetica al cinema. Woody Allen dice che l’arte imita la vita, che imita a sua volta la cattiva televisione. Ecco, Rohmer sa che non è così.
Rohmer s’ispira alla vita, ma anche ai fenomeni naturali, come avviene ne Il raggio verde…
Certo, la parola chiave è naturalezza. Lo dimostra la libertà data agli attori nell’elaborazione delle battute. Libertà che Rohmer sapeva all’occorrenza anche contenere, cosa che oggi gli autori non riescono più a fare. Per esempio in Puerto Escondidos Salvatores lascia andare Abatantuono a ruota libera ed il film ne soffre terribilmente.
Secondo lei Rohmer può aver influenzato per certi versi Malick?
Spero di no. Nell’ultimo film Malick soffre della malattia dei convertiti e mescola i bigliettini dei Baci Perugina con i santini delle Paoline. Se The Tree of Life era pura spiritualità, To the Wonder è sterile declamazione. Comunque credo che Malick non si sia fatto influenzare da nessuno.
Lei nel 1997 ha scritto Invito al cinema di Woody Allen, omaggio ad un autore che ha un modo di fare cinema molto legato al suo vissuto e che morirà con lui. Eppure ho la sensazione che tanti, troppi giovani esordienti tentino di scimmiottare la comicità alleniana..
E gli esiti sono poco felici. È il problema dei tagli sulla tela: tutti sono capaci di farli, ma solo uno li ha fatti per primo ed è quello che conta. Se uno imita si vede sempre. E poi Woody ha già avuto tutto e questo lo rende totalmente libero. Libero di girare un film due volte se non è convinto dell’assegnazione delle parti, come avvenne per Settembre. Libero di girare in Europa se si esaurisce la richiesta americana. Credo che anche nel suo film più brutto ci siano sprazzi di genialità. In To Rome with love il personaggio di Baldwin opera da perfetto ribaltamento rispetto a quello di Provaci ancora Sam. E poi Woody Allen è fedele a se stesso ed al suo metodo, come emerge bene nel documentario Woody. Pensi che lui usa ancora la macchina da scrivere e se vuole spostare una battuta usa forbice e pinzatrice.
Credo che l’elemento comune tra Allen e Rohmer possa essere individuato nel modo di percepire la città, è d’accordo?
Io insegno anche Cinema e Architettura alla sede piacentina del Politecnico e sto finendo l’analisi di Midnight in Paris. Nessuno spazio è lasciato al caso, nemmeno le scale sulle quali Gil è seduto ad aspettare la macchina che lo porta negli anni Venti. Quella è la scalinata della chiesa più antica di Parigi e vi sono sepolti fior fior d’intellettuali. Non è un caso, Woody Allen ricrea la sua Parigi, quella della memoria. Anche Rohmer cercava di volta in volta l’aspetto di Parigi che gli interessava. In Incontri a Parigi non si vede mai una persona di colore, tutto è lineare, pulito perché così lui vede la sua città.
Cosa l’ha affascinata di Lelouch?
La follia ed il fatto che abbia avuto coraggio. Nonostante la stroncatura di Le propre de l’homme ha fatto 55 film ed ha vinto l’Oscar nel ’67 con Un uomo, una donna. Eppure la critica lo sega sempre e lui ne soffre perché vorrebbe davvero essere amato. Lui per ripicca non fa più le anteprime ed il 1 gennaio 2000 ha fatto uscire il primo film del millennio, ovvero Una per tutte. Caso unico della storia del cinema. È un artista vero, operatore di se stesso e quindi padrone vero della propria opera. Nella prima ora di film ti vuole sedurre, poi il resto come viene viene. Ed anche nella vita è così: per lui non conta il rapporto, ma la fascinazione.
Perché nonostante i recenti successi di Garrone e dei Taviani, il cinema italiano resta così debole?
Su questo mi sono in parte ricreduto. Sono stato selezionatore di una rassegna di film italiani che si svolge in Argentina ed è stato un successo. Le sale erano sempre piene di pubblico pagante e film che in Italia sono passati inosservati, come Magnifica presenza di Ozpetek, sono stati apprezzati. Forse al cinema italiano farebbe bene andare di più all’estero ed essere valutato con la giusta distanza, senza i preconcetti che i critici italiani hanno sui vari autori.
A cura di Giulia Colella