Cosa accade se tre studentelli di una scuola di cinema decidono di girare un documentario-tesi sulla leggenda della famigerata strega di Blair, profanando con la sola presenza i territori marchiati dalla nefasta influenza dello spirito del demone? Nulla di buono ovviamente.
La storia è arcinota: nel ’94 i tre si avventurano nei boschi di
Cosa accade se tre studentelli di una scuola di cinema decidono di girare un documentario-tesi sulla leggenda della famigerata strega di Blair, profanando con la sola presenza i territori marchiati dalla nefasta influenza dello spirito del demone? Nulla di buono ovviamente.
La storia è arcinota: nel ’94 i tre si avventurano nei boschi di Barkittsville armati di kit per campeggio, videocamera e una16 mmalla scoperta dei misteriosi siti, teatro nel passato di eventi agghiaccianti. Documentano tutto senza posa, dalle interviste agli abitanti della zona all’esplorazione del fitto bosco, scomparendo senza lasciare traccia in maniera misteriosa. Le ricerche seguenti risultano infruttuose fino a quando un gruppo di antropologi, nel corso di scavi archeologici, scopre uno zainetto colmo di cassette e pellicola su cui è impressionato tutto il girato dai tre studenti. Il materiale viene poi selezionato, rimontato e presentato in sala, dopo il passaggio obbligatorio al Sundance Film Festival ’99 e in seguito a Cannes. Dalle prime proiezioni statunitensi dal luglio scorso ad oggi, il film ottiene un successo mai visto al botteghino (per quel che concerne produzioni a basso costo). Così l’Artisan, piccola e semisconosciuta casa di produzione indipendente, con un investimento di circa sessanta milioni di lire, incassa in soli sei mesi quasi cinquecento miliardi, ringraziando i soggettisti-sceneggiatori (o presunti tali) Daniel Myrick e Eduardo Sanchez.
La cosa più interessante naturalmente non è il film in se stesso, divenuto già un cult come tipico degli snuff movie, ma l’operazione di totale messa in scena, dove di vero ci sono i nomi degli autori forse, i guadagni astronomici di sicuro. Tale complessa architettura è stata ideata pensando a quelli che sono oggi i canali di divulgazione privilegiati: la rete,la TV, la sala cinematografica, senza dimenticare edicole e librerie.
Per farsi un’idea dell’originalità del Progetto Strega di Blair (in tal senso il titolo italiano, che recita il Mistero della Strega di Blair, è depistante) bisogna sapere che l’arrivo nelle sale del film, non è che una tappa preceduta dal lancio in rete della leggenda della strega e della notizia della scomparsa dei giovani cineasti, con tanto di documentazione (falsa). In seguito un reportage – passato in febbraio anche sulla seconda rete RAI, senza adeguata pubblicità – ha informato l’America sui dettagli della vicenda. Si può affermare che il documento sia non solo importante alla comprensione del film, ma addirittura complementare. Nei classici 50 minuti viene ripercorsa la leggenda dal 1785, quando fu messa al rogo una donna presunta colpevole di stregoneria, fino alla scomparsa di Heather, Josh e Mike, passando per macabri eventi come il ritrovamento di corpi sbudellati o l’impiccagione di un serial-killer, che nel 1940 massacrò dei bambini nel bosco. Il tutto corredato da documenti d’epoca (falsi), stampe (false), interviste efficaci ai parenti dei ragazzi (falsi) con le solite foto ricordo, al (falso) esperto praticante di stregoneria portavoce dell’irrazionale, contrapposto al (falso) docente di storia del folklore, voce razionale; non manca poi lo storico di Burkittsville e lo sceriffo scettico naturalmente falsi. Il documentario sullo stile di That’s incredible, di televisiva memoria anche in Italia, non dimentica di accentare gli stereotipi frequenti di ogni storia soprannaturale che si rispetti: le coincidenze (i fatti sanguinosi si verificano ogni 50-60 anni); l’inspiegabile (lo zainetto ritrovato sotto strati di terreno sterile mai rimossi); i simboli totemici con cui venivano incise le carni delle vittime e che ritroveremo puntualmente nel film; l’immancabile killer seriale che agisce medianicamente sotto l’influenza delle voci sconosciute. Soprattutto significativi sono gli intermezzi montati del telegiornale, con la giornalista in “posa classica” sulla destra dello schermo ad aggiornare sui tremendi sviluppi della vicenda “missing students”.
Mi sono soffermato tanto sul documentario televisivo perché, nell’immaginario collettivo rappresenta una sorta di autorevole marchio di veridicità. Ossia pur utilizzando mezzi che deformano il reale ripreso (dagli obiettivi fotografici al montaggio) rappresenta comunque una ipotesi soddisfacente di realtà. Non ci aspetteremmo mai di essere traditi da un prodotto del genere, più di quanto ci aspetteremmo di vedere una zebra giocare con un branco di leoni nel Serengeti. L’operazione furbesca della “banda Myrick-Sanchez” sta proprio nel preparare il pubblico alla sala con la cosiddetta sospensione dell’incredulità, tanto difficile oggi nel cinema di genere horror dopo anni di esorcismi a base di splatter.
Per comprendere il successo di The Blair Witch Project è necessario pensare che in sala si assisteva agli ultimi giorni di tre sconosciuti ormai noti attraverso frammenti del loro passato, parenti e conoscenti, foto e testimonianze; vittime inoltre di una leggenda che non ha mai risparmiato nessuno e che ora non risparmia neanche noi, credendola più vera di tante altre. Un’audace operazione mitopoietica, che cela una conoscenza profonda dei mezzi di comunicazione e dei meccanismi percettivi dei fruitori.
Se l’estetica del documentario è coerente, lo è a maggior ragione anche quella del film. Le immagini alternano le classiche riprese in video camera, così vicine ai prodotti amatoriali, a quelle impressionate su pellicola in una dialettica per nulla casuale, a scandire i ritmi cromatici e dinamici (con la sensazione di trovarci nel mezzo di un film Dogma), a decifrare una possibile supremazia tra i supporti, quasi esista ancora il mito dell’autorevolezza della pellicola (oggi che siamo ad un passo dai film girati in rete solo per la rete). Poi la ricerca della paura reale che il film è tenuto a sublimare, con l’assenza di scene cruente, dove la morte aleggia costante nel momento in cui, già conoscendo la tragica fine del terzetto, siamo interessati dal come, ritrovandoci voyeur (ed è il Cinema) senza imbarazzo. Il crescendo è assicurato dagli elementi che gli horror-movie hanno esplorato per decenni: il sovrannaturale procedere in circolo, per cui i simboli dell’orientamento (bussola e cartina) divengono improvvisamente inutili, sottraendo la sensazione di riconoscere la terra sotto i propri piedi, perdendo di conseguenza le ragioni del proprio camminare; il sentore poi della minaccia dal buio, attraverso ancora una sottrazione, quella della luce che dovrebbe far chiarezza e che per lo spettatore diventa ricerca di un’origine nefasta non più ai margini dello schermo – dove ad esempio Romero aveva confinato l’orrido e il terrificante nel capolavoro La notte dei morti viventi del ’69 – ma nel piano al di là dello schermo, nel buio che non è dissolvenza in nero, ma velo scuro dove sono celate le risposte. Così quando il nostro occhio dilata al massimo le pupille per affidarsi ad una lucina in mezzo allo schermo, la risposta è il terrore di una macchina in spalla che restituisce l’indecifrato bosco plumbeo (archetipo del viaggio irrazionele ma qui anche dato percettivo) percorso all’infinito verso il nulla.
Certo l’articolazione dei suoni, degli stacchi, l’inverosimile legame fisico con la camera che riprende fino in fondo, come in un truce videogame (ne esistono tanti) dove è imperativo andare avanti, cortocircuitano proprio la sospensione dell’incredulità di cui si accennava in precedenza. Ma è troppo tardi perché il finale è improvviso e perentorio. La sensazione che si ha alla fine è quella di spaesamento e confusione, per cui si vorrebbe sapere dell’altro, indotti così ad alimentare fuori dal cinema la leggenda tanto della strega quanto dell’operazione film, magari acquistando i fascicoletti vari, magari ritornando in rete o come negli States campeggiando nel Maryland (i soliti americani!).
In Italia parte dell’operazione multimediale è andata persa, amputata, svuotandola di alcuni contenuti basilari. Già trasformare il Progetto in Mistero nel titolo d’uscita ha creato un’aspettativa tale per cui il pubblico nel nostro paese è rimasto deluso per il mancato intreccio, che solitamente accompagna un film definito dell’orrore.
The Blair Witch Project può ricordare per certi aspetti la geniale operazione di Orson Welles, quando servendosi della radio diramò un falso comunicato alla nazione su una terrificante invasione aliena, scatenando il panico, facendo leva su una paura ancestrale e sullo stato di allerta degli americani in tema di UFO. Myrick e Sanchez sono stati artefici di una manipolazione simile usando un mezzo alla portata di tutti, mostrando che il cinema può evolversi ancora, forse nell’interazione con altri media, sicuramente dimostrando come il fuori campo del pubblico è suscettibile di ulteriori esplorazioni. Del resto la domesticità della tecnologia, l’abitudine all’interazione npreparato a loro insaputa e che, ad un certo punto sono stati eliminati da una finzione che gli ha voluti morti nel reale, cancellandone la presenza a favore di un mito inesistente. Non ricorda più sottilmente il “moderno spettatore multimediale”?
armati di kit per campeggio, videocamera e una16 mmalla scoperta dei misteriosi siti, teatro nel passato di eventi agghiaccianti. Documentano tutto senza posa, dalle interviste agli abitanti della zona all’esplorazione del fitto bosco, scomparendo senza lasciare traccia in maniera misteriosa. Le ricerche seguenti risultano infruttuose fino a quando un gruppo di antropologi, nel corso di scavi archeologici, scopre uno zainetto colmo di cassette e pellicola su cui è impressionato tutto il girato dai tre studenti. Il materiale viene poi selezionato, rimontato e presentato in sala, dopo il passaggio obbligatorio al Sundance Film Festival ’99 e in seguito a Cannes. Dalle prime proiezioni statunitensi dal luglio scorso ad oggi, il film ottiene un successo mai visto al botteghino (per quel che concerne produzioni a basso costo). Così l’Artisan, piccola e semisconosciuta casa di produzione indipendente, con un investimento di circa sessanta milioni di lire, incassa in soli sei mesi quasi cinquecento miliardi, ringraziando i soggettisti-sceneggiatori (o presunti tali) Daniel Myrick e Eduardo Sanchez.
La cosa più interessante naturalmente non è il film in se stesso, divenuto già un cult come tipico degli snuff movie, ma l’operazione di totale messa in scena, dove di vero ci sono i nomi degli autori forse, i guadagni astronomici di sicuro. Tale complessa architettura è stata ideata pensando a quelli che sono oggi i canali di divulgazione privilegiati: la rete, la TV, la sala cinematografica, senza dimenticare edicole e librerie.
Per farsi un’idea dell’originalità del Progetto Strega di Blair (in tal senso il titolo italiano, che recita il Mistero della Strega di Blair, è depistante) bisogna sapere che l’arrivo nelle sale del film, non è che una tappa preceduta dal lancio in rete della leggenda della strega e della notizia della scomparsa dei giovani cineasti, con tanto di documentazione (falsa). In seguito un reportage – passato in febbraio anche sulla seconda rete RAI, senza adeguata pubblicità – ha informato l’America sui dettagli della vicenda. Si può affermare che il documento sia non solo importante alla comprensione del film, ma addirittura complementare. Nei classici 50 minuti viene ripercorsa la leggenda dal 1785, quando fu messa al rogo una donna presunta colpevole di stregoneria, fino alla scomparsa di Heather, Josh e Mike, passando per macabri eventi come il ritrovamento di corpi sbudellati o l’impiccagione di un serial-killer, che nel 1940 massacrò dei bambini nel bosco. Il tutto corredato da documenti d’epoca (falsi), stampe (false), interviste efficaci ai parenti dei ragazzi (falsi) con le solite foto ricordo, al (falso) esperto praticante di stregoneria portavoce dell’irrazionale, contrapposto al (falso) docente di storia del folklore, voce razionale; non manca poi lo storico di Burkittsville e lo sceriffo scettico naturalmente falsi. Il documentario sullo stile di That’s incredible, di televisiva memoria anche in Italia, non dimentica di accentare gli stereotipi frequenti di ogni storia soprannaturale che si rispetti: le coincidenze (i fatti sanguinosi si verificano ogni 50-60 anni); l’inspiegabile (lo zainetto ritrovato sotto strati di terreno sterile mai rimossi); i simboli totemici con cui venivano incise le carni delle vittime e che ritroveremo puntualmente nel film; l’immancabile killer seriale che agisce medianicamente sotto l’influenza delle voci sconosciute. Soprattutto significativi sono gli intermezzi montati del telegiornale, con la giornalista in “posa classica” sulla destra dello schermo ad aggiornare sui tremendi sviluppi della vicenda “missing students”.
Mi sono soffermato tanto sul documentario televisivo perché, nell’immaginario collettivo rappresenta una sorta di autorevole marchio di veridicità. Ossia pur utilizzando mezzi che deformano il reale ripreso (dagli obiettivi fotografici al montaggio) rappresenta comunque una ipotesi soddisfacente di realtà. Non ci aspetteremmo mai di essere traditi da un prodotto del genere, più di quanto ci aspetteremmo di vedere una zebra giocare con un branco di leoni nel Serengeti. L’operazione furbesca della “banda Myrick-Sanchez” sta proprio nel preparare il pubblico alla sala con la cosiddetta sospensione dell’incredulità, tanto difficile oggi nel cinema di genere horror dopo anni di esorcismi a base di splatter.
Per comprendere il successo di The Blair Witch Project è necessario pensare che in sala si assisteva agli ultimi giorni di tre sconosciuti ormai noti attraverso frammenti del loro passato, parenti e conoscenti, foto e testimonianze; vittime inoltre di una leggenda che non ha mai risparmiato nessuno e che ora non risparmia neanche noi, credendola più vera di tante altre. Un’audace operazione mitopoietica, che cela una conoscenza profonda dei mezzi di comunicazione e dei meccanismi percettivi dei fruitori.
Se l’estetica del documentario è coerente, lo è a maggior ragione anche quella del film. Le immagini alternano le classiche riprese in video camera, così vicine ai prodotti amatoriali, a quelle impressionate su pellicola in una dialettica per nulla casuale, a scandire i ritmi cromatici e dinamici (con la sensazione di trovarci nel mezzo di un film Dogma), a decifrare una possibile supremazia tra i supporti, quasi esista ancora il mito dell’autorevolezza della pellicola (oggi che siamo ad un passo dai film girati in rete solo per la rete). Poi la ricerca della paura reale che il film è tenuto a sublimare, con l’assenza di scene cruente, dove la morte aleggia costante nel momento in cui, già conoscendo la tragica fine del terzetto, siamo interessati dal come, ritrovandoci voyeur (ed è il Cinema) senza imbarazzo. Il crescendo è assicurato dagli elementi che gli horror-movie hanno esplorato per decenni: il sovrannaturale procedere in circolo, per cui i simboli dell’orientamento (bussola e cartina) divengono improvvisamente inutili, sottraendo la sensazione di riconoscere la terra sotto i propri piedi, perdendo di conseguenza le ragioni del proprio camminare; il sentore poi della minaccia dal buio, attraverso ancora una sottrazione, quella della luce che dovrebbe far chiarezza e che per lo spettatore diventa ricerca di un’origine nefasta non più ai margini dello schermo – dove ad esempio Romero aveva confinato l’orrido e il terrificante nel capolavoro La notte dei morti viventi del ’69 – ma nel piano al di là dello schermo, nel buio che non è dissolvenza in nero, ma velo scuro dove sono celate le risposte. Così quando il nostro occhio dilata al massimo le pupille per affidarsi ad una lucina in mezzo allo schermo, la risposta è il terrore di una macchina in spalla che restituisce l’indecifrato bosco plumbeo (archetipo del viaggio irrazionele ma qui anche dato percettivo) percorso all’infinito verso il nulla.
Certo l’articolazione dei suoni, degli stacchi, l’inverosimile legame fisico con la camera che riprende fino in fondo, come in un truce videogame (ne esistono tanti) dove è imperativo andare avanti, cortocircuitano proprio la sospensione dell’incredulità di cui si accennava in precedenza. Ma è troppo tardi perché il finale è improvviso e perentorio. La sensazione che si ha alla fine è quella di spaesamento e confusione, per cui si vorrebbe sapere dell’altro, indotti così ad alimentare fuori dal cinema la leggenda tanto della strega quanto dell’operazione film, magari acquistando i fascicoletti vari, magari ritornando in rete o come negli States campeggiando nel Maryland (i soliti americani!).
In Italia parte dell’operazione multimediale è andata persa, amputata, svuotandola di alcuni contenuti basilari. Già trasformare il Progetto in Mistero nel titolo d’uscita ha creato un’aspettativa tale per cui il pubblico nel nostro paese è rimasto deluso per il mancato intreccio, che solitamente accompagna un film definito dell’orrore.
The Blair Witch Project può ricordare per certi aspetti la geniale operazione di Orson Welles, quando servendosi della radio diramò un falso comunicato alla nazione su una terrificante invasione aliena, scatenando il panico, facendo leva su una paura ancestrale e sullo stato di allerta degli americani in tema di UFO. Myrick e Sanchez sono stati artefici di una manipolazione simile usando un mezzo alla portata di tutti, mostrando che il cinema può evolversi ancora, forse nell’interazione con altri media, sicuramente dimostrando come il fuori campo del pubblico è suscettibile di ulteriori esplorazioni. Del resto la domesticità della tecnologia, l’abitudine all’interazione npreparato a loro insaputa e che, ad un certo punto sono stati eliminati da una finzione che li ha voluti morti nel reale, cancellandone la presenza a favore di un mito inesistente. Non evoca il “moderno spettatore multimediale”?
Alessandro Leone
(Pubblicato sul n°12 della versione cartacea, aprile 2000)