Parthenope nasce nel 1950, un miracolo donato dalle acque del Golfo di Napoli. Come la serena mitologica, è seduttrice sfuggente, fantasia inafferrabile, infiamma i desideri di uomini e donne, non risparmiando nemmeno il fratello Raimondo, ubriaco d’amore fino alla morte, e l’amico di infanzia, Sandrino, catturato a vita fino alla fuga.
L’ultimo film di Sorrentino cerca nuovamente Napoli, quale teatro magico e a tratti surreale, popolato di personaggi che rispondono presente all’appello del regista richiamati dalla commedia dell’arte, dai racconti popolari, dagli strati sociali più disparati, maschere di vizi e virtù che scaldano il racconto come già fu, in parte, in E’ stata la mano di Dio. Parthenope si muove elegante dall’alto al basso di Napoli e dintorni, dai paradisi di Capri agli inferni dei quartieri malfamati, esploratrice delle contraddizioni e dei mali di una città disorientante, per chi è forestiero, ma forse anche per chi ci vive o ci ha vissuto e ci ritorna. E per Sorrentino Napoli sembra proprio un eterno ritorno, una cosmopolis da esplorare nelle due versioni: la Napoli esteriore e quella interiore, più interessante e misteriosa, camminando su un confine frastagliato che non riesce a separare il reale dal fantastico. E qui si entra in un territorio personale, intimo, difficile anche da etichettare, come è stato (e ancora è) per il cinema di Fellini, sempre scomodato quando si tratta di orientarsi nell’opera del regista partenopeo. L’eccesso estetico – se si può parlare di eccesso – che a volte sembra invitare lo spettatore a godere della semplice superficie del racconto, tanto ammalianti sono le inquadrature scenografate (e, direi, coreografate) da Sorrentino e fotografate da Daria D’Antonio, non sembra favorire l’immersione nelle sottotracce di un racconto che ha molto a che fare con l’anima del suo autore. Di tanto in tanto si ha come l’impressione che Sorrentino si nasconda per lasciare intravvedere altro. Tanto E’ stata la mano di Dio, quanto Parthenope, sembrano emisferi di uno stesso pianeta dal cuore magmatico, così ribollente da essere inaccessibile all’occhio. La magnifica Celeste Dalla Porta è l’incanto che fa da sbarramento, che ruba gli sguardi con il suo intercedere sinuoso, con le sue parole precise, chirurgiche, formulate per spiazzare e creare distanza.
Eccessivo, Parthenope è un film che ti sbronza, bevi di gusto per capire quale sia l’origine del gusto e dell’ebrezza, fino a quando la vista e la ragione iniziano ad offuscarsi, nella speranza che ad un certo punto qualcosa venga sottratto e non aggiunto: parole e immagini; perché, viene detto, “si impara a vedere quando inizia a mancare tutto il resto”.
Il film è stracolmo di espressioni tautologiche, una liturgia della parola che segmenta oltremodo un flusso di quadri di memoria femminile – quella di Parthenope adulta (Stefania Sandrelli) – che diventano viaggio di formazione e pure immersione in una città in cui la stessa protagonista cerca (e trova) coincidenze caratteriali. A tratti il gioco di rispecchiamenti rivela un terzo attore, Sorrentino, secondo uno schema mimetico per nulla banale in cui il regista racconta Parthenope che racconta se stessa e la città, perché infine Sorrentino possa trovare uno sguardo capace di rimetterlo in relazione con la storia della sua Napoli, vera, sognata o mitizzata. O tutte queste cose insieme. Esperienze che, quadro narrativo dopo quadro narrativo, passano rendere il passaggio del tempo indolore, nonostante niente appaia davvero appagante. Sarà per questo che alla fine l’avventura più dolorosa sembra proprio la vita che scorre e si consuma, così come ci ha raccontato il regista nei suoi film più recenti.
Allora, ad un certo punto qualcosa può anche essere di troppo, strabordante, addirittura inutile e ripetitivo, fino anche ad irritare, ma si capisce che è la cifra stilistica del film e del regista, teso nello sforzo sovraumano di fermare il tempo attraverso la bellezza. Ci riesce? Dipende dallo spettatore, più che dall’autore.
Vera Mandusich
Parthenope
Regia e sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Fotografia: Daria D’Antonio. Montaggio: Cristiano Travaglioli. Interpreti: Celeste Dalla Porta, Gary Oldman, Silvia Degrandi, Silvio Orlando, Isabella Ferrari, Lorenzo Gleijeses, Peppe Lanzetta, Luisa Ranieri, Stefania Sandrelli. Origine: Italia, 2024. Durata: 136′.