Le cose non sono mai come sembrano nei film del giapponese Kore-eda Hirokazu. Cantore delle relazioni familiari, spesso disfunzionali, il regista devoto al maestro Yasujirō Ozu, dopo gli interlocutori Le verità (2019) e Le buone stelle – Broker (2022), girati rispettivamente in Francia e in Corea, con L’innocenza torna a casa.
Autore a tutti gli effetti (ha sempre scritto, girato e montato i suoi film, fatta eccezione per l’opera prima Maborosi, 1995), Kore-eda affida la sceneggiatura di quest’ultima fatica a Yuji Sakamoto, premiata al 76° Festival del Cinema di Cannes.
Monster è il titolo originale del film, e poco ci azzecca con L’innocenza, che invece sposta su territori concettuali diametralmente opposti il film e i suoi protagonisti. Rispetto agli ultimi lavori, dove il nucleo familiare, centro nevralgico della narrazione, è un ensemble di voci non sempre legate da reali vincoli di parentela ma tenacemente in cerca di amorose corrispondenze in un contesto sociale spesso ostile, in Monster la famiglia (una madre vedova e il figlio poco più che bambino) è generatrice di uno script che si sposta dalla cellula all’organismo (malato): la comunità.
Un incendio sta devastando un edificio in una cittadina della provincia di Nagano dove abitano l’undicenne Minato (Soya Kurokawa) e la sua premurosa madre (Sakura Andō), dal balcone di casa guardano le fiamme da lontano, le mura domestiche sono sicure e accoglienti. Il bambino però sembra turbato, qualcosa sta infiammando la sua serenità, la madre capisce che l’origine è da ricercare a scuola, nel comportamento violento di un giovane insegnante (Eita Nagayama). Ma come detto, il cinema di Kore-eda è seminato di false piste o indizi depistanti: quello che sembra un mostro forse non lo è, forse è proprio Minato a infliggere sofferenza a un compagno. La dirigente scolastica, che sta vivendo il lutto per la perdita della nipote (di cui forse è colpevole), ha assunto una posizione poco trasparente nei confronti tanto della madre quanto del docente. Quando i contorni della vicenda iniziano a definirsi, un ulteriore punto di vista distrugge la presunta verità.
Ispirandosi per la costruzione dell’intreccio al capolavoro di Kurosawa Rashōmon (stella polare per diversi autori, tra i più recenti ricordiamo Guillermo Arriaga), sceneggiatore e regista segmentano il film in tre parti che ci consegnano tre punti di vista diversi sulla vicenda. Ogni sguardo è parziale, ogni prospettiva sembra distorta al netto dell’oggettività di alcuni elementi narrativi. L’edificio in fiamme sembra ancorare il racconto e presto diventa simbolo dichiarato delle passioni che intercorrono tra i personaggi, in particolare tra Minato e il compagno di classe, Eri, apparentemente vittima delle sue prevaricazioni.
Se alla fine delle prime due parti ci sembra di aver compreso il gioco di semina per disorientare lo spettatore, in un marchingegno anche troppo artefatto, troppo scritto a tavolino, è la terza parte a sorprendere ed emozionare, non solo perché la verità che emerge è spiazzante quanto sincera, ma anche perché la grana del film si addolcisce, Kore-eda si riconcilia con i toni poetici che sono nelle sue corde, stingendo con la sua macchina da presa su Minato e Eri, sul loro rapporto di amicizia e sui loro turbamenti da età di passaggio. Improvvisamente sembra di essere dalle parti di Miyazachi, ma con un’amarezza di fondo, perché resta appiccicata la sensazione di un mondo abitato da persone (adulte) sconnesse tra di loro, incapaci di osservarsi e comprendersi; e di osservare e comprendere i bambini, che guardano gli adulti e che vorrebbero essere guardati senza troppi giudizi, con rispetto per la singolarità che sono.
Un pensiero in chiusura non può non essere dedicato a Ryûichi Sakamoto, che firma la colonna sonora appena prima di morire, un’ultima traccia per il cinema di un autore che ha reso più luminose le pellicole di tanti cineasti, tra tutti Bertolucci e Nagisa Ōshima, e che ha accompagnato i nostri sogni dentro e fuori la sala cinematografica.
Vera Mandusich
Ritratto di famiglia con fiamme (e dopo con tempesta)
Avvertenza: quanto segue contiene spoiler, leggere con cautela.
Eri e Minato sono nel loro piccolo tempio: un vagone deragliato e conquistato dalla vegetazione del bosco, che sembra ritagliato e incollato da una fiaba di Andersen o da un anime dello Studio Ghibli, ma che con tutta probabilità è un segmento del treno descritto nel racconto Una notte sul treno della Via Lattea di Kenji Miyazawa, e a cui Kore-eda si ispira. Mi verrebbe da definirlo, il vagone, la loro “capanna antiatomica”, lontano dai fuochi urbani che infiammano palazzi e individui prossimi ad esplodere. Gli individui soprattutto, schiacciati dalla pressione della solitudine, anche quando vivono in collettività. Nella casa rifugio, che è così più in basso del livello stradale (e cittadino) da sembrare sepolta, ci si arriva attraverso un tunnel scuro, che con il bosco disegna una caverna, perché l’arrivo possa sempre ricompensare la paura del buio lungo il tragitto. Il vagone/casa è decorato e illuminato a festa, proiezione del godimento di due piccoli uomini che sbocciano lasciandosi alle spalle il mondo di superficie e le tribolazioni che gli sono propri. Il segreto della felicità per Eri e Minato è tutto nella scoperta dei propri corpi di dolore che diventano improvvisamente corpi di piacere, agitati dalla sbornia emotiva, ubriachi di novità come recentemente avevamo visto in altri due preadolescenti nel film di Lukas Dhont Close (2022) o, al femminile, nella Tomboy di Celine Sciamma (2011).
Le inettitudini degli adulti hanno bruciato il mondo, trasformato ciò che era famiglia, nel contesto più ampio possibile di collettività, in un luogo di incomprensioni e violenze, in cui è difficile crescere, se crescere è conoscere e farsi conoscere (per suo padre, Eri è un mostro). Non siamo lontani dal senso di Ritratto di famiglia con tempesta dello stesso Kore-eda Hirokazu (2016), con la variante che il punto di vista del bambino qui diventa centrale e conquista il film, lasciando forse agli adulti solo rimpianti e sensi di colpa, impossibili da lavare con la tempesta finale, che non purifica, anzi.
Forse il film più cupo dell’ultimo Kore-eda, Monster lascia mal sperare sul futuro, facendo evaporare anche l’idea di comunità-per-caso che comunque correva come buona novella nelle deviazioni dalla norma dei protagonisti di Father and Son, Little Sister, Un affare di famiglia e anche Broker. E se in Un affare di famiglia la deviazione quasi coincideva con la patologia, ci sarebbe da chiedersi se non ci sia uno stato patologico ancor più diffuso che abbraccia l’intera società, così diffuso da non riconoscerlo nemmeno più.
Alessandro Leone
L’innocenza
Regia: Hirokazu Kore-Eda. Sceneggiatura: Yuji Sakamoto. Fotografia: Ryûto Kondô. Montaggio: Hirokazu Kore-Eda. Musiche: Ryûichi Sakamoto. Interpreti: Sakura Andō, Eita Nagayama, Soya Kurokawa, Hinata Hiiragi, Mitsuki Takahata, Akihiro Kakuta, Shidô Nakamura. Origine: Giappone, 2023. Durata: 126′.