Yorgos Lanthimos è figlio della Grecia, un Paese con un passato tumultuoso. Basti ricordare la recente crisi del 2008, devastante dal punto di vista economico, sociale e individuale per la maggior parte dei greci, da cui è però emersa un’importante generazione di cineasti, spinti da un bisogno di rappresentare una realtà metonimica, spesso famigliare, chiusa e disciplinata.
Il legame tra i temi, i toni e le modalità di racconto di questi artisti ha portato la nascita di una nuova corrente cinematografica: la Greek Weird Wave (in italiano Onda Strana Greca). Yorgos Lanthimos è considerato il padre della Greek Weird Wave, affiancato dalla collega Athina Rachel Tsangari (regista del lungometraggio Attenberg). I due genitori della nuova onda cinematografica si sono conosciuti proprio grazie alla loro passione per il cinema e hanno spesso collaborato, aiutandosi a vicenda. È con le loro storie – e quelle di molti altri registi come Syllas Tzoumerkas, Panos H. Koutras, Alexandros Avranas e Yorgos Zois – che nasce il termine “Weird”. I contenuti cupi, i personaggi bizzarri e le trame non semplici da interpretare sono frutto di una poetica nata dalla loro vita in Grecia: crescere in una costante incertezza ha portato questi registi a sviluppare uno stile del tutto spiazzante.
In campo cinematografico, Yorgos Lanthimos comincia a farsi le ossa nel 2001 con O kalyteros mou filos (Il mio migliore amico), una commedia in co-direzione con l’amico Lakis Lazopoulos, pellicola che però il regista si rifiuta di considerare parte della sua personale filmografia – trattandosi di un film condiviso. Il suo cinema inizia con Kinetta nel 2005, da lui diretto e scritto interamente (co-prodotto da Athina Tsangari), opera in cui inizia ad elaborare la sua personale poetica cinematografica, facendo i conti con un budget risicatissimo. Tre protagonisti senza nome, due uomini e una donna, ricreano delle scene di delitto: un poliziotto assume il ruolo dell’aggressore dettando i movimenti da compiere, una cameriera d’albergo obbedisce e “interpreta” la vittima in fuga e un fotografo si occupa di riprendere le loro mosse goffe e meccaniche. Ciò che vediamo fare dai protagonisti non è altro che una recita, un’esplicita finzione di un combattimento per la vita, di cui non sappiamo il reale scopo. Lanthimos presenta i suoi personaggi mostrando la loro quotidianità fatta di gesti comuni, ma che compiuti da loro paiono misteriosi e bizzarri. Sono presentati all’ombra di ciò che li ossessiona, attraverso tecnica registica ruvida e apparentemente incerta. Non vengono utilizzati cavalletti, il regista cattura immagini mosse e confuse che non riescono ad arrestare al centro i personaggi: sono i loro dettagli ad inondare il quadro. Delle dita, un naso, la nuca, un ombelico; la camera a mano riporta a una sorta di piacere voyeuristico modellato da sfocature e offuscamenti, creando inevitabilmente una distanza emotiva dalle immagini. Le sensazioni di disagio vengono amplificate dal tormentante silenzio che accompagna quasi l’intero film; nessun’altro lungometraggio di Lanthimos sarà così scarno di dialoghi e parole. I volti non comunicano nulla: persone che, oltre a non avere una propria identità, sembrano incapaci di mostrare alcuna partecipazione emotiva. La depersonalizzazione dei propri personaggi è una caratteristica predominante nelle opere del regista, che educa i suoi attori a realizzare performance asettiche, con l’obiettivo di ottenere una recitazione antinaturalistica.
Con Dogtooth, secondo film interamente sceneggiato e girato dal promettente cineasta, nel 2009 raggiunge fama internazionale: ottiene il premio nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes e la candidatura ai Premi Oscar nel 2011 come Miglior Film Straniero.
In questa storia tre figli adolescenti, privi di nome, seguono una disciplina patriarcale singolare. I genitori hanno insegnato loro che al di fuori dei cancelli di casa il mondo è molto pericoloso, dominato da mostri, e che saranno pronti ad uscire solo quando il canino gli cadrà, non importa se quello destro o quello sinistro. Lanthimos rinchiude spesso i suoi personaggi in situazioni o luoghi claustrofobici, portandoli inevitabilmente alla costante ricerca di una fuga – si pensi anche a Bella in Povere creature!. Sceglie uno stile di ripresa in cui prevalgono inquadrature fisse, in cui il regista non bada ai tagli fuori dal quadro dei corpi degli attori. Inquadrato fino alle spalle, un personaggio è solo corpo inerme, privo di testa e cervello che lo governino.
La sua poetica rimane contraddistinta dall’incomunicabilità dei personaggi e dall’inespressività dei suoi attori. Rispetto al primo film le emozioni qui trovano maggiormente spazio, ma ciò che manca sono i sentimenti comunemente associati alla famiglia – l’amore, la fratellanza, la comprensione. I tre figli sembrano anche non dare molta importanza al fatto di non possedere un nome proprio. L’unico personaggio ad averlo è Christina, la sola estranea a cui è permesso entrare e uscire dalla casa una volta a settimana per poter soddisfare i bisogni sessuali del figlio maschio. È proprio Christina che fa crollare il castello di menzogne costruito dai genitori semplicemente portando all’interno qualcosa di nuovo: dei film in videocassetta. Nella villa-prigione, infatti, le arti come la televisione, il cinema e la musica sono sempre state distorte agli occhi dei figli e il regista, per stimolare la voglia di libertà della sua protagonista, pone come limite proprio il cinema. Entrando in sintonia con i contenuti delle videocassette, scopre la realtà e comprende il valore dell’identità.
Yorgos Lanthimos descrive Dogtooth come una storia che vuole indagare l’insistente desiderio di aggrapparsi all’idea di famiglia e l’ossessione di crescere i figli all’interno di un mondo in cui il concetto di famiglia si sta lentamente disintegrando.
Riprendendo la scia della ricerca dell’identità, crea il suo terzo film: Alps. Nel 2011 raggiunge il culmine grazie anche all’intervento dello sceneggiatore Efthymis Filippou (che lo ritroveremo in suoi film successivi, tra cui Kinds of Kindness), vincendo il Premio Osella per la migliore sceneggiatura.
Alps narra di solitudini incolmabili e porta nuovamente l’attenzione sulla crisi dell’individualità in personalità incomplete. La storia principale è quella di un’infermiera senza identità (ancora), membro di “Alpi”, un gruppo segreto composto da altri tre individui che impersonano a pagamento soggetti defunti per dare conforto ai loro familiari. Appropriandosi delle loro abitudini ed entrando nelle loro case, mettono in scena un teatrino disordinato nel tentativo di sostituire l’essere umano con un altro: non contano più i connotati, la personalità, le esperienze, i sentimenti, sembra bastino degli oggetti personali e delle parole recitate in modo mnemonico per rimpiazzare chiunque. Ad inizio film conosciamo Mary, una ragazzina coinvolta in un brutto incidente che le toglierà la vita. La protagonista, scontenta della sua esistenza, si appropria proprio dell’identità di Mary.
Lanthimos torna a parlare di famiglia, in chiave totalmente diversa, mostrando tre realtà differenti ma intrecciate tra loro. La donna è l’unica della quale viene mostrata la vita privata: tornata a casa da lavoro ha il compito morale di accudire il padre ormai anziano e malato. Il secondo nucleo familiare che viene presentato è il gruppo “Alpi”: qui i membri possono finalmente trovare comune appartenenza, ognuno con il proprio soprannome (scelto tra i nomi delle vette della catena montuosa delle Alpi) e uno scopo comune. L’ultima tipologia di famiglia messa in scena è quella devastata dalla morte della figlia, che pur di accettare la sua scomparsa richiede il servizio proposto da “Alpi”, senza riceverne un vero e proprio giovamento.
La sceneggiatura del lungometraggio è quasi ridotta all’osso, rendendo asettici i dialoghi tra gli attori – una costante ormai nei suoi film. Una comunicazione artificiale continua che porta spesso confusione nello spettatore, che si domanda in quale momento i personaggi stanno recitando il ruolo del defunto e quando sono semplicemente se stessi. Un senso di disorientamento è reso anche dalle riprese: primi piani sfocati e sporchi che esprimono l’inadeguatezza e il disagio di quelle anime, lasciando sensazioni di imbarazzo in chi guarda.
Lanthimos ha voluto analizzare come l’uomo non sappia rassegnarsi e abbia un disperato bisogno dell’accogliente sicurezza del passato felice – una tematica che ritroviamo anche nel suo ultimo Kinds of Kindness. In Alps c’è un realismo straniante, un modello comune nei film della Weird Wave: osserviamo i membri delle “Alpi” cercare di guadagnarsi soldi extra in un contesto reale, quello del 2011, dove in Grecia la disoccupazione e le condizioni di austerità erano in forte aumento.
Distante da queste tematiche e dalle familiari location greche, The Lobster è un altro grande successo del regista, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes. È il suo primo lungometraggio in lingua inglese e il primo ad avere un cast con attori di fama mondiale – Olivia Colman, Colin Farrell, Rachel Weisz. È ambientato in Irlanda, in un futuro distopico, dove è presente una sola regola imprescindibile: avere un partner. Yorgos Lanthimos, nuovamente insieme a Efthymis Filippou, costruisce questa storia bizzarra mettendo sotto una luce oscura e animalesca l’amore, che era rimasto finora il grande assente del suo cinema.
Il protagonista David viene lasciato dalla compagna ed è quindi costretto a diventare ospite di un istituto di accoppiamento per poterne trovare un’altra. Le coppie si formano nel momento in cui due individui hanno una caratteristica in comune: quella di David è l’essere miope. Ognuno degli ospiti ha solo quarantacinque giorni per riuscire a fidanzarsi e se rimangono senza partner oltre la scadenza vengono trasformati in un animale a loro scelta. Quella di David è l’aragosta.
The Lobster è il primo film del regista a contenere una voce narrante fuori campo: una donna che racconta in dettagli molto precisi le azioni e i pensieri del protagonista. La storia è divisa in due atti contraddistinti da due mondi in contrasto: in uno dei due, se non ci si accoppia, si diventa un animale, nell’altro si vive da animale senza la possibilità di accoppiarsi. Ma questi due mondi normativi non sono poi così opposti, semplicemente impongono leggi a chi ne fa parte, senza lasciare la libertà di amare veramente qualcuno.
Yorgos Lanthimos gioca molto sul concetto di “essere animali”, pone i suoi personaggi in situazioni primitive in continuazione, facendoli comportare come bestie ben prima di essere trasformati. La caccia ai solitari imposta agli ospiti dell’hotel è l’esempio perfetto per descrivere come questa umanità sia un branco arreso agli obblighi imposti dall’alto, senza nessuno che giudichi il giusto e lo sbagliato: la rassegnazione sembra dominare questo mondo. La prima sequenza della caccia è mostrata a rallentatore e guardando i loro volti deformati da smorfie divertenti ascoltiamo per intero Aπό μέσα πεθαμένοι (Morto dentro), una canzone d’amore del 1925 della cantautrice greca Danai Stratigopoulou. Il contrasto tra la scena mostrata sullo schermo e le parole di questo brano viene colta soltanto da chi conosce il greco: è stata una scelta del regista non tradurla per i pubblici internazionali, ma l’intreccio tra musica e immagini rende poetica l’intera sequenza. Parole di un amore puro e vero, che deriva da un profondo dolore, ma che non rispecchia assolutamente l’amore vigente in questa umanità, dove i sentimenti vengono messi in secondo piano. Questo modo di ragionare ricorda molto l’agire dei bambini, con approcci innocenti e ignoranti di fronte alle forti emozioni. Infatti, tutti i personaggi di questo universo hanno comportamenti infantili e immaturi, manifestati dalla consueta inespressività. Questo riesce a divertire il pubblico che viene indotto alla risata improvvisa in scenari tutt’altro che comici.
The Lobster sembra ambientato nei giorni nostri, soffermandosi sulla schizofrenia costitutiva della nostra epoca in merito alle relazioni e alla solitudine. Porta a un’intensa riflessione sulla società in cui viviamo, tanto che viene da chiedersi perché in questo mondo parallelo sia così essenziale vivere in coppia, come se solo tra coniugi sia possibile essere felici. La civiltà del consumo prospettata nel film esclude lo spazio per il singolo, utilizzando l’ansia come strumento manipolatorio per spingere i personaggi ad obbedire senza porsi troppi quesiti.
Il film chiude la fase greca, aprendo a una cinematografia che guarda alle star internazionali. Affinando sempre di più il suo stile, Lanthimos continua a portare sullo schermo temi disturbanti che si nascondono nella psiche umana; le opere successive, pur fuori dall’onda cinematografica greca, continuano ad abbracciare quella corrente definita weird.
Il sacrificio del cervo sacro (2017) tratta nuovamente il tema del nucleo familiare, spezzato dall’intrusione di un sentimento ben preciso: il rancore, incarnato nell’antagonista Martin (interpretato dallo straordinario Barry Keoghan). Vediamo la disperata lotta di una famiglia nel cercare di rimanere in piedi (letteralmente) perché afflitta da una sorta di maledizione che lentamente porta alla morte. Qui il regista utilizza tecniche di ripresa per lui innovative come la plongée (inquadrature dall’alto), i grandangoli e avvicinamenti di macchina lentissimi verso il personaggio per rendere la percezione del tempo infinita. La simmetria e l’ordine nelle immagini non manca: Yorgos Lanthimos ha un’attenzione unica ai dettagli presenti nel quadro e non c’è mai nulla fuori posto, a meno che non abbia rilevanza per il racconto. Il sacrificio del cervo sacro è tra i suoi film più sadici, insieme a Dogtooth, ma la differenza è che il sangue, il dolore e la sofferenza qui sono protagonisti. Un lungometraggio dal finale amaro che non si può facilmente dimenticare.
Con La favorita nel 2018, Lanthimos si supera in tutto e per tutto. Tra i costumi di scena vaporosi di Sandy Powell, le musiche maestose e originali della stagione barocca e un’impeccabile Olivia Colman come protagonista, crea un film penetrante e irriverente. Narra di una storia vera, successa nei primi anni del ‘700. La regina Anna di Gran Bretagna, non più tanto giovane e in salute, trascura il suo regno per accudire i suoi diciassette conigli, ognuno rappresentante un figlio che ha perso negli anni. Chi amministra il potere è effettivamente Sarah Churchill (Rachel Weisz), la fidata consigliera della regina, la quale approfitta di essere la favorita per i suoi interessi. Ma quando arriva a corte Abigail Hill (Emma Stone), cugina di Sarah, i favoritismi fanno presto a cambiare.
Yorgos Lanthimos rimase subito affascinato dal soggetto scritto da Deborah Davis, intuendone il grande potenziale e cogliendo l’opportunità di costruire tre personaggi femminili complessi, raccontati attraverso grandangoli deformanti, creando immagini distorte che rappresentano impeccabilmente la loro psicologia instabile.
Con La favorita comincia in parte a prendere le distanze dalle origini, mantenendo però sempre il suo stile inconfondibile. Inizia così a parlare di grandi donne, portatrici di cambiamento ed evoluzione (dopotutto questo è anche quello che richiede il mercato di oggi). Infatti, nel 2023, con il suo capolavoro vincitore di diversi premi Oscar Povere Creature! si distacca dal resto della filmografia, avvicinandosi più al mainstream. La nostra recensione analizza questo classico viaggio dell’eroe, compiuto però da uno strano e unico personaggio (Bella), dalla personalità irrisolta e alla ricerca della propria identità. I temi della Greek Weird Wave ritornano a fare da eco, ma con una struttura più complessa a più strati.
Arrivando all’ultimo Kinds of Kindness, notiamo come Yorgos Lanthimos abbia ripreso la scia greca (grazie anche al ritorno di Efthymis Filippou). Nel pezzo pubblicato a cui rimandiamo, vengono analizzate le similitudini con il suo periodo greco: ritroviamo volti familiari, l’utilizzo della musica classica e delle tematiche affini. Insiste sulla rappresentazione degli universi che pretendono essere utopici, ma inevitabilmente le loro imperfezioni fanno crollare i protagonisti in errori bizzarri e insani. Errori che, ad osservarli con sguardo metonimico, ritraggono l’essere umano in tutte le sue stranezze e debolezze.
La Greek Weird Wave è stata un vero e proprio processo culturale importante, non necessariamente per capire e dare una spiegazione a ciò che stava accadendo alla Grecia, ma per porre dei quesiti fondamentali, capaci di diffondere la consapevolezza della situazione politica ed economica del Paese. Tutto il cinema di Yorgos Lanthimos mette in scena storie allegoriche nate da domande su aspetti pungenti della realtà, dipinti da immagini che penetrano il nostro cervello come proiettili.
Lanthimos non ha risposte: vuole provocare reazioni.
Francesca Ponti