È stato Bird di Andrea Arnold a risollevare subito le sorti del concorso del 77° Festival di Cannes dopo un inizio non memorabile, con due film che non hanno troppo impressionato.
Arnold si conferma maestra nel filmare e raccontare i giovanissimi in una fiaba proletaria del giorno d’oggi che deve qualcosa a Il cielo sopra Berlino.
Bailey è una dodicenne che dimostra più dei suoi anni, ama stare in giro, osservare gli animali e vive con il giovanissimo padre Bug. Questi è uno spacciatore un po’ sballato che le annuncia il matrimonio con una donna con cui ha una relazione da pochi mesi. Girovagando nei dintorni, la protagonista si imbatte in Bird (Franz Rogowski), una creatura eterea che cerca un indirizzo e dice di aver vissuto lì da bambino, anche se non ricorda nulla. La ragazza lo aiuta nella sua ricerca e lo accompagna, filmando tutti gli incontri con il telefonino, un po’ per precauzione un po’ per minaccia. Arnold mette al centro i ragazzi come nel bellissimo American Honey e in Cime tempestose (e come là c’è l’estraneo che arriva a turbare l’equilibrio), facendo centro un’altra volta. Si parla di figli con genitori assenti o quasi e padri e madri che lo sono diventati molto giovani. Le figure maschili sono violente o sballate, mentre la madre è menefreghista.
In questo trova terreno comune con il film inaugurale del concorso, l’opera prima francese Diamant Brut di Agathe Riedinger. È la storia della diciannovenne Liane, che abita in una casa isolata nella periferia di una cittadina sul mare con la madre separata e la sorella minore. La madre trascura le figlie per dedicarsi al nuovo fidanzato, accusata dalla maggiore che si prende cura e soprattutto è in preda a una frenetica attività. Liane, con il seno rifatto (con i soldi ricavati lavorando come cameriera), ama farsi notare ricevendo attenzioni degli uomini che respinge in maniera esplicita. Il suo pensiero principale è apparire, soprattutto sui social, dove tiene profili molto attivi ed è costantemente attenta alle reazioni. Il suo obiettivo è fare l’influencer e si è candidata per partecipare un noto reality show, per il quale la convocano per un provino, giudicando il suo profilo molto interessante e lasciandole intendere che sarà selezionata. Ma la conferma non arriva, nel frattempo l’adolescente taccheggia merce nei negozi per poi rivenderla, esce con le amiche, va nei locali, prova vestiti. Tutto in una lotta per emanciparsi (“voglio far vedere quella che sono” afferma al provino senza aggiungere molto) e forse conquistare le attenzioni materne. Il limite del film è che Liane non suscita quasi mai né simpatia né partecipazione e Diamant Brut resta troppo a lungo nel limbo delle cose già viste, molto nel solco dei lavori di Céline Sciamma, volendo fare anche un po’ il Rodeo di Lola Quivoron, senza quella forza nonostante una protagonista energica. Interessante la concisa teoria a cui si rifà: vuole essere bella, perché la bellezza suscita ammirazione, l’ammirazione dà potere e il potere porta soldi.
Non ha entusiasmato neppure il danese Pigen med nalen – The Girl with the Needle di Magnus Von Horn, ispirato a una storia vera. Siamo a Copenhagen nel 1918 e l’operaia Karoline è sfrattata dall’appartamento mentre il marito è in guerra e non dà notizie, tanto da considerarlo morto. Dopo aver chiesto un aumento al padrone della manifattura, inizia una relazione con lui e rimane incinta. Alla promessa di matrimonio dell’uomo si oppone la madre duchessa. Karoline, che nel frattempo aveva respinto il marito tornato ferito e con il viso deforme, tenta di abortire e trova aiuto solo in Dagmar (bravissima Trine Dyrholm), che si presenta generosa e accogliente ma si rivelerà altro. Il regista vuole parlare di tante cose, di gravidanze indesiderate, aborto, infanticidio, guerra, povertà e ambiguità della natura umana, di chi fa il male credendo o fingendo di fare il male, ma la prende un po’ alla lontana, mette un po’ troppa carne al fuoco mostrando appesantendo, anche con le musiche, una storia già cruda.
da Cannes, Nicola Falcinella