Sandra, una scrittrice di fama, vive in uno chalet di montagna sulle Alpi francesi con il marito Samuel e il figlio Daniel, un bambino rimasto cieco dopo un incidente di cui è stato vittima in tenera età. Quando Samuel viene trovato sulla neve con il cranio fratturato davanti all’entrata dello chalet, Sandra viene accusata di omicidio. Sembrerebbe una caduta accidentale dal balcone o un suicidio, tesi avallata dalla sua presunta depressione. Il processo che segue diventa un evento mediatico, l’accusa inizia a scavare nel rapporto tra i coniugi, mettendo a nudo diverse criticità. Emergono le registrazioni di accese conversazioni, che Samuel, anche lui con velleità da scrittore, pare usasse come spunti narrativi. Il quadro si complica quando l’accusa interpella Daniel, la sua testimonianza sembra piena di contraddizioni e omissioni.
La regista e sceneggiatrice Justine Triet, il cui talento già si era rivelato nel precedente Sibyl, in concorso sulla Croisette nel 2019, scrive il film con il compagno Arthur Harari, indispensabile punto di vista maschile in un film complesso, che sicuramente non si esaurisce dopo la prima visione, ma che invita (a dispetto delle sue due ore e mezza) a ritornare in sala, per scandagliare le trame di una sceneggiatura magnifica, disseminata di indizi, non quelli che ci permetterebbero di arrivare a una soluzione definitiva di un presunto uxoricidio; piuttosto parlerei di tracce utili a orientarsi in un labirinto semantico in cui si sono persi una donna e un uomo (e forse anche il loro figlioletto cieco).
L’impianto da legal movie, che vede accusa e difesa rimbalzarsi i testimoni, non opera per rendere sempre più palese la verità ma, al contrario, per dimostrare quanto sia difficile afferrarla. Tesi e antitesi producono una dialettica che non trova una sintesi certa, che non licenzia il pubblico con la certezza della verità oggettiva, ripiegando invece su una credibile accettazione che la realtà delle cose spesso è sfuggente, ambigua, materia oscura. Siamo più dalle parti di Chabrol, che di Hitchcock.
Avvertenza per chi il film non l’ha visto: d’ora in avanti l’analisi potrebbe svelare alcuni passaggi decisivi del racconto.
Palma d’Oro meritata al 76° Festival di Cannes, Anatomia di una caduta ci pone davanti a un racconto che ogni qualvolta pare correre nella direzione di una soluzione finisce per smontarsi davanti ad elementi nuovi, oppure, e questo è ciò che seduce maggiormente, ad elementi che guardati con occhi diversi si rivelano portatori di significati opposti. Il gioco regge proprio perché nel sezionare le dinamiche di coppia, il pubblico – e questo lo sanno Triet e Harari – porta con sé idee preconcette sui rapporti di forza tra una lei e un lui all’interno della coppia. In particolare abbiamo il ribaltamento dello stereotipo che vede la donna sacrificare ambizioni e carriera per doversi dividere tra professione e gestione del focolare (moglie e madre generosa custodisce la casa come accogliente riparo). Scopriamo presto che invece Sandra, scrittrice di fama, ha surclassato le aspirazioni di Samuel, schiacciato dal successo della moglie, incapace di potare a termine il suo romanzo, costretto ad occuparsi del figlio Daniel, forse anche per il senso di colpa dovuto all’incidente che lo ha reso cieco.
La frattura che da tempo si consumava tra Sandra e Samuel emerge con contorni sempre più chiari a processo in corso, le cui cronache vengono amplificate dai media, e diventano pop.
Ecco, la pubblica piazza, questa entità che ad un certo punto dallo sfondo si insinua nelle trame ambigue del racconto di Sandra, scrittrice, per questo abituata a manipolare i suoi personaggi oscillando tra finzione e autobiografia. La pubblica piazza esige di sapere, e giudica sulla base di elementi forniti dalla scrittrice stessa, attraverso i suoi libri, e da ciò che ha lasciato trapelare del suo privato. Non educato alle convenzioni della scrittura e dello spettacolo dell’arte, il pubblico rimbalza tra ipotesi e grida la propria visione delle cose, navigando in superficie su un tappeto confezionato ad hoc dal giornalismo di cronaca.
Suicidio e omicidio sono due ipotesi contraddette costantemente, soprattutto quando protagonista diventa Daniel, il bambino cieco, colui che inizia a vedere davvero i genitori solo in tribunale, davanti a presunte evidenze e alle tante zone d’ombra che, improvvisamente, distruggono la sua infanzia. Il dubbio si insinua nel bambino: forse la madre potrebbe aver davvero ucciso il padre, anche se poco tempo prima lo stesso genitore aveva manifestato tendenze suicide? Il mondo degli adulti è deludente, ma lo è anche l’impossibilità di distinguere la realtà secondo contorni netti. Sandra giura la sua innocenza, ma com’è gelida nell’applicazione di una razionalità che sposta abilmente il baricentro della materia narrativa! Tanto da sembrare a lavoro su un nuovo romanzo.
Il bambino diventa un suo personaggio? Si fa o lo trasforma in perno del racconto? Con la sua testimonianza, nemmeno questa priva di contraddizioni, produce, nonostante la sua cecità, immagini dei genitori, adattate su registrazioni sonore diffuse in tribunale. Sono passaggi straordinari in un film che sembra cercare proprio nella lingua parlata una soluzione impossibile: lei tedesca, rifiuta il francese, che non padroneggia, per esprimersi in inglese davanti alla giuria. Il litigio che Samuel ha fermato in un file audio che potrebbe essere decisivo, si materializza sullo schermo, come fosse un flashback (e non lo è), e ci chiama, da spettatori, a entrare nelle maglie più intime di un rapporto a ridosso della deflagrazione definitiva. Ma quel pass verso il visivo sembra sempre di più la proiezione del bimbo cieco in cerca di luce, e avvalora il bisogno che tutti abbiamo di immagini (sempre di più direi), come fossero testimonianze non manipolabili. Per questo ad un certo punto, e sadicamente sul più bello, da quelle immagini immaginate la regista decide di staccare e tornare in tribunale, per interpellare nuovamente il solo orecchio, perché si ritorni nella condizione di cecità in cui siamo stati – con il piccolo Daniel – per tutto il film. Se qualcosa c’è, è fuori campo, in quel magnifico territorio invisibile in cui i grandi registi nascondono i significati meno espliciti di un’opera.
Ma per Daniel la questione è vitale, c’è in ballo una madre che bisogna salvare, ricostruire un ricordo, rimodularlo in maniera funzionale. La sua capacità di comprendere come infilarsi nella nebbia delle ipotesi è sorprendente (forzatura drammaturgica necessaria) e ci offre un punto di vista intriso di desiderio nei confronti della madre, frutto anche di una volontà di sopravvivere alla tragedia salvando tutto ciò che rimane della famiglia: ovvero, edipicamente, condannando il padre al suicidio.
Dall’uxoricidio al parricidio.
Alessandro Leone
Anatomia di una caduta
Regia: Justine Triet. Sceneggiatura: Justine Triet, Arthur Harari. Fotografia: Simon Beaufils. Montaggio: Laurent Sénécha. Interpreti: Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis, Jehnny Beth, Saadia Bentaïeb. Origine: Francia, 2023. Durata: 150’.