| Ho visto tante proiezioni con ospiti a Venezia, ma l’accoglienza che ti ha riservato il pubblico è stata tra le più sentite e calorose. Che impressione ti hanno fatto tutti quegli applausi prima del film? Non me li sarei mai aspettati. I primi, all’ingresso in sala, mi hanno messo di buon umore, anche perché sono passato davanti ai miei concittadini, li ho indicati subito a mio figlio Achille, come a dire “Vedi? Siamo fra amici!”. Il secondo applauso (al momento della presentazione del film, ndr) è stato davvero lunghissimo e in quel momento ho realizzato quanto fosse stimata la persona e questo, lo confesso, mi ha toccato profondamente, avrei voluto abbracciare tutti. L’applauso alla fine invece non si può raccontare.C’erano molte persone venute da Pergola per la proiezione. Che rapporto hai con la tua terra e con i tuoi concittadini? Dal mio paese hanno organizzato un pullman ed è molto più che folklore perché molti pergolesi hanno partecipato attivamente al film, prestando voci, volti, vestiti e materiale di vario genere. Nel Q&A che ha seguito la proiezione ho citato più volte Pergola e i suoi cittadini, in segno di gratitudine. Per il resto non voglio generalizzare o peggio idealizzare. Ci sono dei pergolesi che stimo, altri che sarebbe da prendere a calci. Per il territorio il discorso è diverso, lo amo senza riserve e proprio per questo mi fa rabbia e tristezza vederlo spogliato e abbandonato. In passato è stato abitato da un popolo determinato e orgoglioso, che il territorio lo ha saputo lavorare e difendere rifiutandosi di piegarsi ai francesi, ai papalini, ai nazifascisti, ai padroni della Montecatini. Adesso invece non siamo più capaci di niente, ci portano via tutto, un pezzetto alla volta. Tutto e tutti verso la costa, l’azienda-Stato ha stabilito che la l’entroterra non rende e deve crepare. Ci tolgono perfino i medici di famiglia e noi facciamo spallucce. Ci siamo abituati, assistiamo, inermi e apatici, alla nostra fine. Dopo una lunga carriera di cortometraggi sei passato al lungometraggio. Quali difficoltà hai incontrato e quali nuove opportunità ti ha offerto la forma più lunga? Col cortometraggio ho dato tutto quello che potevo, è una forma che ormai conosco a memoria. Il lungometraggio invece è un terreno completamente nuovo, pieno di incognite e ostacoli di ogni tipo (lo sviluppo e la “tenuta” della storia, i dialoghi…), è come tornare indietro di trent’anni per ricominciare tutto da capo. Per me è una sorta di strada obbligata, sono uno sperimentatore, preferisco mille volte rischiare e sbagliare tutto che andare avanti per inerzia. Hai sempre lavorato da solo o con la collaborazione di poche persone (al montaggio e al sonoro, ad esempio), invece qui i titoli di coda sono affollati. E’ stato complicato avere così tanti collaboratori da gestire? Al montaggio eravamo in tre, io, Lola Capote e Alberto Girotto. Stesso numero al sonoro, Stefano Sasso, Lorenzo Danesin e Valentina Vallorani (con me alle indicazioni e alla supervisione). Il reparto più affollato è stato senza dubbio quello dei disegnatori: siamo partiti da una ventina, poi le file si sono via-via ingrossate e nell’ultimissimo periodo eravamo più di ottanta. E’ stato molto complicato, ma solo perché non avevo la possibilità di operare in condizioni normali: lavoravo 16 ore al giorno, dovevo occuparmi di una dozzina di ruoli diversi. Ho fatto quello che ho potuto, ho cercato di seguire tutti i colleghi al meglio delle mie possibilità. Da quale idea sei partito per la scrittura del film? Che cosa avevi l’urgenza di raccontare? L’idea che mi fa fare un film è sempre la stessa: il mondo dei vinti. Nel corso degli anni avevo accumulato tante voci e tante storie, vere e sognate, successe ai miei familiari e a persone che non ho mai incontrato. Una dozzina di anni fa ho scritto il soggetto e l’ho sviluppato, poi ho aspettato, aspettato, aspettato, aspettato, aspettato. Sono passati molti anni e tante facce sorridenti che poi sparivano insieme alle parole e alle promesse. Quando è arrivato Salvatore Pecoraro, mi ha dato quello che mi mancava: la fiducia e la libertà. E’ stato determinante perché senza fiducia e libertà non riesco a lavorare. Non che sia stato facile anzi, il tempo sprecato e le storture passate hanno causato un problema dietro l’altro. E’ stata una vera e propria odissea e comunque sono rimasto in piedi, sono riuscito a tornare a casa. Possiamo considerarlo un film politico? E se sì, in che senso? Penso di sì ma non sta a me dirlo. Il mio l’ho fatto e adesso sono stanco, mi faccio volentieri da parte e vi cedo la parola. Oltre a un lavoro attento all’immagine, c’è una ricerca minuziosa dei testi citati e delle parole dei personaggi (attenzione che hai sempre avuto). Che cosa puoi raccontare a questo proposito? Sono contento che tu l’abbia notato, presto grande attenzione alle parole, ai gesti, alla composizione delle inquadrature e perfino alle sinossi: cerco di non lasciar passare niente che non mi piaccia. Probabilmente perché di fronte alle scene mi pongo in primo luogo come spettatore e da spettatore sono molto esigente. Il lungometraggio, a differenza dei corti per cui non c’è in Italia l’abitudine di abbinarli ai lunghi distribuiti in sala, può invece ambire a una distribuzione in sala. Che progetti ci sono a riguardo? Al momento non ne so molto, non c’è niente di sicuro. Prima di Venezia mi sono stati fatti dei discorsi, alcuni mi hanno convinto e altri per niente. Spero di poter presto riprendere le fila, con serenità e lealtà, senza grandi illusioni, ascoltando col dovuto rispetto calcoli, strategie e previsioni. Farò tutto quello che devo mettendo sempre al primo posto la dignità dell’uomo. A cura di Roberto Della Torre |