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SPECIALE Oppenheimer

Tecnicista ma commestibile. Affabulatore e mai logorroico. Confusionario seppur matematicamente logico.
Sarà un caso, o per una misteriosa congiunzione probabilistica che ben si sposa ai temi trattati, ma i grandi geometri della settima arte, quelli che fanno tecnica per prestidigitazione, sono in gran parte nati sotto il segno del Leone. Stanley Kubrick, Roman Polanski, Alfred Hitchcock. E un gradino o due un po’ più in basso Sam Mandes e James Cameron. Christopher Nolan, che si ispira alla prima categoria ma rientra invero nella seconda, quella appunto dei mestieranti abilissimi ma che proprio rivoluzionari non sono, appronta un film lunghissimo, tratto da un libro insignito del Pulitzer altrettanto lungo (180 minuti la pellicola; 857 pagine l’omonima biografia di Kai Bird e Martin Sherwin edita da Garzanti). Eppure è da ammirare. Non tanto per i motivi anzidetti, cioè la ragione nel caos, la prolissità elevata a scaltra affabulazione, ma proprio perché rende interessante ciò che aprioristicamente non lo è: mettere in scena la matematica. La matematica, come la fisica quantistica, è la noia condensata in formule, incomprensibile, eleusina, conchiusa nell’autismo viscerale dei suoi anacoretici apologeti. Non è un caso che di quella stringata manciata di pellicole dedicate all’argomento, le più memorabili siano proprio deviazioni nell’autismo o nella malattia mentale. Cioè, si parla di scienza per dire altro.

Oppenheimer un po’ rientra in questa seduzione della meccanica cinematografica, che più che di concetti atomici si occupa di merchandising e comunicazione emozionale: la vita di uno scienziato, padre della bomba atomica, che viene scissa come un atomo, scomposta in tutte le sue particole, frazionata in pacchetti di informazioni discrete come i quanti, reinventata, ripensata, riformulata.
È il vizio di Nolan, che come ma meno che in Tenet (2020), gioca col tempo e i suoi misteri, senza la filosofia di Tarkovskyj che invece faceva da aureolato contorno in Interstellar (2014). Questo suo lungometraggio è un retour à l’ordre, al figurativismo secco delle cose terrene come d’altronde ci insegna il lavoro fatto sui corpi degli attori, in buona parte plastificati quanto il Ken che Ryan Gosling non poteva fisiologicamente interpretare. Cillyan Murphy sta al Ken reale, cioè la bambola, come Ryan Gosling non può stare a quello cinematografico.

Metacinema. Equazioni monche. Atomi di generi differenti che si incrociano e collidono in combinazioni degeneri. L’altro grande tema, dopo e insieme allo spazio-tempo, è infatti l’interpretazione. Ricordiamo un importantissimo incontro scontro, peraltro recuperabile su YouTube, tra Bernard-Henry Lévi e Alexander Dugin. Il filosofo francese incalza il russo sulla Crimea. L’avete invasa. È un fatto. Il filosofo russo risponde che non si sta parlando di fatti, ma di messa in prospettiva della Storia.
Oppenheimer la mette appunto in prospettiva, racconta i fatti a modo suo, dilatandone gli antefatti, facendone degli anti-fatti, insomma revisiona il narrabile secondo il paradigma dell’intramontabile sogno americano per cui il processo storiografico è composto da molte aree di luce e poche zone di opacità morale. Quella di Truman, di annientare decine di migliaia di vite umane premendo un bottone per interposta persona, è stata davvero una decisione presa a cuor leggero? Per il macchiettistico personaggio di Gary Oldman che lo interpreta, evidentemente sì.
Eppure Nolan è un mesmerico dell’immagine, un tecnocrate del suono, uno capace di mettere le cose in ordinatissimo subordine, e quindi alla fine, nella sinfonica impalcatura di pensieri, la sua sintassi trova coerenza e risonanza proprio nel gelosissimo microuniverso cinematografico da lui ordito e decostruito. Allora Oppenheimer resta un grande e lucidissimo sogno di una riscrittura non tanto della Storia, o una sua correzione, quanto del tempo, che si attorce e si distende con continui flashback e flashforward sulla vita del fisico e sulle vicende dell’intera nazione: l’uomo è metafora delle vicende che plasma e da cui è costantemente riformato; l’uomo è porta e veicolo per l’estrinsecarsi delle più incontrollabili dinamiche politiche e ideologiche. Una riscrittura in cui, appunto, conta più la messa in prospettiva che il fatto compiuto.

Marco Marchetti

Il Distruttore dei Mondi

“Ora sono diventato la Morte, il distruttore dei Mondi”, così dichiara Oppenheimer, il Prometeo americano, che ruba il “fuoco” moderno dell’atomo per farne un’arma di distruzione senza precedenti.
Per narrare lo scienziato e l’uomo Oppenheimer, Christopher Nolan ha scritto e girato un film grandioso: struttura tripartita, ma continuamente scardinata da andirivieni temporali; passaggi dal colore al bianco e nero; scene riprese da più punti di vista; camera a mano e movimenti di camera rapidi; musica travolgente e opprimente, che cede il posto ad un silenzio senza rumore nel momento della deflagrazione.
Meravigliosa la prima parte del film dal ritmo vorticoso: Oppenheimer “vede” ciò che sta oltre il visibile, ne immagina il potenziale devastante e distruttivo e lo schermo ci restituisce la sua capacità immaginifica in fasci di luce, sfere infuocate, detonazioni universali.
Ma, nell’ultima parte del film, dopo Hiroshima e Nagasaki, è ben altro ciò che “vede”. Alla festa del suo trionfo, il rumore assordante dei piedi che i partecipanti sbattono per terra tra grida di giubilo anticipa il movimento di camera e, una volta giunto di fronte alla platea festosa, Oppenheimer “vede” sovrapporsi ai volti degli astanti i segni degli effetti della bomba: volti che si disintegrano, corpi dalla pelle lacerata, corpi carbonizzati.
Nolan con Oppenheimer fa un film politico, perché ci interroga sui rapporti tra scienza e società e politica («Pensa che a qualcuno a Hiroshima o Nagasaki importi chi ha costruito la bomba? Non ha sganciato lei la bomba, l’ho fatto io», così Truman ad Oppenheimer), sulla responsabilità dell’uomo nell’era dell’Antropocene, sulla cooperazione internazionale per la soluzione dei conflitti, sull’uso delle armi e dell’energia nucleare.

Angela Todisco

5 buoni motivi per cui Nolan con Oppenheimer è arrivato davvero vicino a Kubrick

1) Perché Nolan dirige un parterre stellare di attori e attrici, su cui spiccano Cillian Murphy e Robert Downey Junior, dando a ciascuno il giusto spazio all’interno di una storia corale nella quale – come in 2001 Odissea nello spazio – tutto è collegato: Emily Blunt, Matt Damon, Florence Pugh, Rami Malek, Josh Hartnett, Gary Oldman, Casey Affleck, Kenneth Branagh e tanti altri, sono gli atomi di una reazione nucleare a catena in cui ognuno ha la sua parte di meriti (e di colpe) a partire dagli inizi degli studi sull’atomo fino ad arrivare al bombardamento di Nagasaki e Hiroshima.

2) Perché Nolan riesce a scrivere e magistralmente a dirigere un film su Oppenheimer uomo e scienziato, che diventa un film sulla Storia anche grazie a una fotografia la cui importanza è simile a quella di Barry Lindon: lo fa per merito di una serie di scelte stilistiche che, passando senza sosta dal colore al bianco e nero, intrecciano da un punto di vista cromatico l’ottimismo intrinseco nel lavoro di Oppenheimer con la freddezza e l’asetticità della guerra e della politica.

Il dottor Stranamore

3) Perché richiamando alla memoria le implicazioni filosofiche presenti nelle maglie narrative de Il dottor Stranamore, Nolan trasforma un film storico ed epico incentrato sulla bomba atomica e sulla seconda guerra mondiale in un vero e proprio thriller esistenziale dove Oppenheimer diventa un novello Prometeo tormentato dal suo genio: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi” recita, infatti, lo scienziato citando il testo sacro indù del Bhagavad Gita dopo il primo test nucleare nel luglio del 1945, ben sapendo che – anche a causa sua – da lì in avanti il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Per tutto il film (e per tutta la vita) Oppenheimer sembra restare schiacciato dal senso di colpa di aver “solo fatto il suo dovere” di fisico senza riuscire a perdonarsi l’aver indagato il miracolo dell’atomo.

4) Perché anche se Oppenheimer è un film prettamente visivo, Nolan ha chiesto a Ludwig Goransson, già suo collaboratore in Tenet, delle musiche che oltre a creare una forte tensione emotiva, ben si adattassero al crescendo di preoccupazioni morali di Oppenheimer: ne esce una colonna sonora fatta di archi e violini talmente ossessivi che, al pari della Nona Sinfonia di Beethoven in Arancia Meccanica costantemente e visceralmente legata alle azioni del drugo Alex, per lunghi tratti addirittura oscura i dialoghi sullo schermo come fosse il suono di un’esplosione atomica che tutto azzera.

5) Perché Nolan, grazie a una sceneggiatura che scorre via fluida per tre ore (al contrario di quanto era avvenuto in Tenet), mette in piedi un’architettura in grado di raccontare i vari momenti della vita di Oppenheimer attorcigliandoli su tre diversi piani temporali: saltando avanti e indietro nel tempo e spaziando tra punti di vista soggettivi e oggettivi, Nolan sospende ogni giudizio morale su Oppenheimer limitandosi a evidenziare la complessità dell’essere diventato “il padre della bomba atomica” e le contraddizioni di un uomo chiamato a far i conti con la morte. Esattamente come il soldato Joker di Full Metal Jacket (l’indimenticato Matthew Modine tra l’altro presente anche in Oppenheimer seppur in un ruolo minore) che sull’elmetto, a fianco il simbolo della pace, aveva la scritta “Born to kill” a rappresentare la schizofrenia della guerra.

Luca Masera, da cinemasera.blogspot.com/

Oppenheimer

Regia e sceneggiatura: Christopher Nolan. Fotografia: Hoyte van Hoytema. Montaggio: Jennifer Lame. Musiche: Ludwig Goransson. Interpreti: Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Matt Damon, Kenneth Branagh, Josh Hartnett, Jack Quaid, Gary Oldman, Gustaf Skarsgård, Rami Malek, Dane DeHaan, Michael Angarano, Matthew Modine. Origine: USA/GB, 2023. Durata: 180′.

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