La 55^ Quinzaine des cineastes di Cannes si è aperta con la consegna della Carrosse d’or al maliano Suleiman Cissé, noto soprattutto per il capolavoro Yeleen – La luce, premiato a Cannes nel 1987 e primo lungometraggio dell’Africa nera a ricevere un tale riconoscimento. Per l’occasione è stato proiettato il suo Den muso – La jeune fille del 1975.
La storica sezione parallela, che quest’anno ha cambiato nome da Quinzaine des réalisateurs a des cineastes per togliere ogni determinazione di genere, è stata poi inaugurata dalla proiezione di The Goldman Case – Le procès Goldman di Cédric Kahn. Dramma processuale tutto dentro il tribunale, tranne un breve prologo, che ricostruisce un caso giudiziario esemplare degli anni ‘70. Tra la fine del 1969 e l’inizio del ‘70 Pierre Goldman fu autore di varie rapine a Parigi e accusato anche dell’aggressione in una farmacia durante la quale furono uccise due farmaciste. Si dichiarò colpevole di tutti i fatti, tranne la rapina in farmacia e gli omicidi, ma fu condannato anche per quelli. In carcere scrisse un libro autobiografico ribadendo le sue tesi e sostenendo di essere accusato in quanto ebreo. Così la sentenza fu annullata e nel 1976 si rifece il dibattimento che è al centro del film. In aula Goldman vuole difendersi da solo, si definisce rivoluzionario e viveur, ma non assassino. Sostiene che la sua innocenza è “ontologica”. Dichiara con fermezza che “Gli ebrei sono come i neri a tutti gli effetti”, accusa di razzismo la polizia, “non una parte della polizia, tutta la polizia”. Appassionato di cultura caraibica, aveva sposato una donna di Guadalupa che depone in tribunale; al banco dei testimoni si presentano in tanti, cominciando da suo padre, poi la psicologa, vari poliziotti e i testimoni oculari. Pierre cerca di trasformare in processo politico un dibattimento molto seguito, con il folto pubblico che applaude e partecipa in aula.
Dal punto di vista giudiziario bisogna focalizzarsi sui fatti, ai fini della giustizia conta solo quello che uno ha fatto, non quello che avrebbe potuto fare. Il film sviluppa però tanti aspetti, è anche il ritratto di un’epoca e forse il bilancio e la chiusura di quella precedente. Il padre e la madre del protagonista erano ebrei polacchi che si erano trasferiti in Francia, avevano partecipato alla Resistenza a Parigi e avevano avuto Pierre. Poi la madre, comunista, fu accusata di essere una spia sovietica e fu costretta a lascia la Francia: il figlio restò a vivere con il padre e la rivide solo nel 1959. C’è l’aspetto della resistenza, della sinistra francese nell’immediato dopoguerra e c’è quella rivoluzionaria del post ‘68: Pierre è un rivoluzionario, ha combattuto in Venezuela, è figlio sei suo tempo, incarna l’eroe romantico, ma pure razionale e colto (volendo, il film ha pure una lettura filosofica).
L’attore protagonista Arieh Worthalter è molto bravo a rendere il personaggio carismatico e ribelle, decisamente affascinante. Tutto il cast è ben scelto da Kahn, regista ormai di lungo corso da ricordare in particolare per Roberto Succo che fu in concorso a Cannes nel 2001. Un film asciutto, teso e incisivo, molto convincente. Una bella sorpresa all’altezza della Quinzaine.
da Cannes, Nicola Falcinella