C’era una volta lo spaghetti western
C’era una volta un genere: il western all’italiana, universalmente noto come spaghetti western. Nato sotto la stella (di latta) del cinema di Sergio Leone, una generazione di pistoleri brutti sporchi e cattivi hanno preso prepotentemente il posto dei gringos dalla faccia pulita dei film di John Ford. C’era, dicevamo, perché lo spaghetti western è morto negli anni ottanta quando è degenerato nella farsa da cazzotti sullo stile di Bud Spencer e Terence Hill.
Una cinematografia di Serie B che però può contare una folta schiera di appassionati che ne mantengono vivo lo spirito. Quentin Tarantino, autoproclamatosi King of B’s, si erge a novello dottor Frankestein e riesce addirittura a riportare in vita la creatura, infondendogli nuove energie. Vent’anni dopo Le Iene, forse il suo film più vicino al western contemporaneo, Tarantino cita esplicitamente il celebre Django di Sergio Corbucci, film che in realtà ha poco da spartire con il suo omonimo “scatenato” se non la vena irriverente, cinica e schizofrenica. Il primo Django, interpretato da Franco Nero (che Tarantino ha fortemente voluto in un cameo nel suo cast) era uno spietato pistolero che, per il suo interesse, si intrometteva nello scontro tra alcuni americani razzisti e una banda di messicani che stavano progettando un colpo di stato. Django di Jamie Foxx è uno schiavo afroamericano, liberato da un cacciatore di taglie tedesco, alla ricerca della moglie venduta a un grande proprietario di piantagioni nel Sud.
Tarantino costruisce un film che risente molto della sua vena poetica, ma riesce a elevarsi rispetto agli stilemi classici dello spaghetti western. Il riferimento, più che esplicito, a una lettura parallela della vicenda di Django con quella del Sigfrid della saga wagneriana dei Nibelunghi dimostra chiaramente l’intenzione di approfondire i livelli interpretativi dell’opera. Non può essere un caso che dopo aver stravolto gli esiti della storia con Bastardi senza gloria, l’epopea di liberazione del suo eroe “nero” ricalchi le orme dell’eroe preso come ispirazione dall’ideologia nazista.
Tarantino sceglie uno stile estremo, violento al limite del parossismo, che culmina in una carneficina degna di un film dell’amico giapponese Takashi Miike (regista che, non a caso, ha avuto il suo Django in Sukiyaki Western). Il crescendo di violenza è tanto estremo da diventare grottesco, surreale e al limite del comico negli effetti, ma Tarantino tratta il tema della schiavitù come nessuno aveva osato fare fino ad ora. Difficile immaginare che nella tenuta di Rossella O’Hara i padroni potessero far sbranare dai cani gli schiavi che tentavano la fuga o chiudere le donne in una cassa di metallo, arroventata dal sole, per punire le loro insolenze, eppure queste atrocità erano all’ordine del giorno e mai nessuno ha avuto le palle di portarle al cinema. Quentin sì, e di questo bisogna dargli atto.
Carlo Prevosti
Django Unchained, ovvero il wester secondo Quentin Tarantino
Il dottor Schultz è un dentista tedesco, diventato cacciatore di taglie nel Texas di fine ‘800. Gli capita di aver bisogno di uno schiavo, in particolare Django, per portare a termine uno dei suoi lavori. E’ in questo modo che i due diventano prima soci in affari, poi maestro e allievo ed infine amici, tanto che Schultz deciderà di aiutare Django a liberare la moglie, Broomihilda, venduta come schiava al ricchissimo e cattivissimo coltivatore di cotone Calvin Candie.
Alla fine, Tarantino arriva al western. Lo fa a modo suo, come è giusto, dopo un corteggiamento lunghissimo, iniziato già con il suo primo film. E lo fa accostandosi al modo di immaginare il genere che era stato soprattutto di Sergio Leone e Sergio Corbucci, verso il quale ha dichiarato da sempre profonda ammirazione.
A ripensare al suo cinema, si fa in fretta a ritrovare citazioni, omaggi, dinamiche e personaggi che hanno molto a che fare con quel modo di intendere il genere: gli spaghetti western. Sostiene Tarantino che Sergio Leone ha influenzato i giovani registi più di quanto abbia fatto John Ford. Che gli spaghetti western hanno avuto la capacità di prendere un genere classico, quasi istituzionalizzato, per farlo diventare qualcos’altro. E questo aspetto, questa capacità che ha agganciato l’ammirazione di Tarantino è uno dei punti da quali, forse, vale la pena partire per parlare di Django Unchained.
Django è certamente una dichiarazione d’amore per un genere ammirato da sempre, ma non è uno spaghetti western. E’ un altra cosa. E’ un western alla Tarantino. Non c’è un nome, almeno non ancora. Magari si troverà adesso che c’è. Django ha dentro di sé tutti quegli elementi che fanno del cinema di Tarantino quello che è. Quel tipo di dialoghi, i salti temporali, la capacità della musica di dettare la narrazione ed il montaggio, quel certo modo di trattare un certo tipo di violenza, per esempio. La capacità che hanno questi elementi di modificare l’oggetto che gli passa tra le mani, è dovuta al fatto di non essere solo delle caratteristiche, ma di combinarsi insieme per formare un sistema.
Django tratta un gran numero di temi. C’è il razzismo; una società che sta andando incontro a dei cambiamenti radicali e violenti (mancano solo due anni alla guerra civile) senza apparentemente rendersene ben conto; c’è il confronto tra la cultura europea (rappresentata da Schultz, medico tedesco che conosce la letteratura) e il tentativo di imitarla, senza riuscirci, della ricca borghesia del sud statunitense (rappresentata da Calvin Candi, un proprietario terriero che si fa chiamare monsieur, ma che non conosce una parola di francese e non ha mai letto Dumas); c’è la vendetta e la voglia di riscatto; c’è una storia d’amore.
Per non farsi travolgere da tutto questo, per non rischiare di correre da una parte all’altra nel tentativo di dire tutto, Tarantino sceglie una strada, una posizione ben definita. Una posizione che è uno sguardo. C’è un momento all’interno del film, una battuta di un dialogo breve tra Schultz e Django, dove il cacciatore di taglie dà un consiglio al giovane schiavo che ha appena liberato, e che fa più o meno così: Scegliti una parte e poi portala fino in fondo. Non si esce dalla parte. Per Tarantino è la stessa cosa. Sceglie un modo di fare cinema, che è il suo modo, e tutto il resto passa attraverso quel modo lì. Il razzismo, lo scontro fra cultura, il riscatto, l’amore. Che sia più una maniera di riscrivere il reale, piuttosto che una maniera per rappresentarlo, è evidente. Che sia una maniera consapevole, è dichiarato dalla prima scena, con la camminata degli schiavi in fila nel buio del bosco. Un carrello laterale, alberi illuminati come si vedono solo nelle scenografie a teatro e un personaggio assurdo che vien fuori dal buio: un dentista tedesco su di carretto nella notte. Arriva e si presenta. Presenta anche il cavallo! E il cavallo si inchina!
Attori che fanno una parte. Django Unchained è il cinema di Tarantino raccontato da Tarantino. E’, a modo suo, un meccanismo perfetto. Che non significa un film perfetto. Quello e’ un altro discorso. Ha più a che fare con il come che con il cosa. Tarantino mette alla prova se stesso. Prende ciò che ama moltissimo e prova a riscriverlo, a piegarlo in maniera coerente al suo modo di pensare il cinema. E ci riesce perfettamente.
Il manierismo è dietro l’angolo, verrebbe da dire. Forse sì, ma non questa volta. Non ancora.
Matteo Angaroni
Django Unchained
Regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino. Fotografia: Robert Richardson. Montaggio: Fred Raskin. Interpreti: Jamie Fox, Leonardo Di Caprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Kurt Russell. Origine: Usa, 2013. Durata: 165′.