La prima immagine è quella di un cellulare che ci mostra una figura umana. Viene in mente subito Michael Haneke. Poi abbiamo svariati, interminabili minuti di schermo nero trafitto da ordinatissimi titoli di testa. In realtà sono titoli di coda montati dalla parte sbagliata in una innovativa operazione di recupero della tradizione: costringere lo spettatore a comprendere la complessità di una pellicola a partire dall’attestazione di chi ci lavora. Poi abbiamo la sequenza di apertura, che di per sé, visto che trattiamo la musica, è una specie di sinfonia, cioè un insieme di intuizioni, di cose che andremo a vedere e che appunto, pur in forme e misure diverse, torneranno: l’algida direttrice d’orchestra Lydia Tàr (Cate Blanchett) tiene la scena su un metaforico palcoscenico, anzi su un piccolo trono da cui risponde alle domande dell’immancabile giornalista. Sentiamo prima la voice over dell’uomo che elenca il suo curriculum: una sequela di titoli altisonanti, onorificenze aristocratiche, premi e segnalazioni di fama mondiale che decorano d’alloro la fronte della indiscutibile maestra. Titoli di testa dopo titoli di testa. Anzi, titoli di testa dentro altri titoli di testa in un gioco a matrioska che è meta-cinematografico, e che costruisce una narrazione affabulatoria nascosta tra altre narrazioni. E poi la direttrice comincia a parlare, a discutere di musica, a trattare di filosofia, a creare assonanze, allegorie, intrecci e allacci in un solo grande e rizomatico ginepraio di riferimenti incrociati. È un garbuglio di suoni, una continua intersezione di rimandi misteriosissimi, chiari forse soltanto agli esteti della musica colta, e da cui tutti gli altri, i profani, sono puntualmente preclusi.
Eppure la bellezza e l’intelligenza di questa sequenza d’apertura, che di per sé occupa un buon quarto d’ora nell’economia di un film di due ore e mezza, è tutta nei gesti: le parole della Blanchett sono come note che lei sapientemente dirige. La mano sinistra accarezza le forme, disegna curve sinuose nell’aria, plasma le idee; la destra tiene il tempo, bacchetta, sferza l’aria incandescente con la punta dell’indice. È ipnotica. Dirige la vita, sua e degli altri, come un’orchestra dove tutto è funzionale all’ottenimento di una perfezione filosofica e iperurania. Il resto dell’intreccio si dipana da qui, si sbroglia come il Bolero di Ravel, sempre uguale e al contempo diversissimo, cangiante, fatto di sonorità eterogenee e sguscianti che finiscono per dire la stessa cosa ma da una molteplicità di punti di vista. Il suo, di punto di vista, che è appunto quello della direttrice; e poi quelli delle persone che con lei hanno a che fare, gli studenti, l’assistente favorita, la storica compagna, i colleghi, i collaboratori e via discorrendo, in una stratificazione ammaliante e martellante che è tutta superficie proprio come l’esistenza impeccabile che ha sempre sfoggiato. Presto ci si perde, è come andare alla deriva tra i canti mortiferi delle sirene, sedotti da dialoghi magnetici, da discussioni complesse e al contempo edificanti sull’intero spettro dello scibile musicale che si fa pura contemplazione concettuale.
A dirigere c’è Todd Field, un regista che ha fatto tre film in oltre vent’anni, sempre candidati agli Oscar e mai premiati. In The Bedroom (2001) con Sissy Spacek: cinque candidature; Little Children (2006) con Kate Winslet e Jennifer Connelly: tre candidature. Da un curriculum così si pretende soltanto un capolavoro, e Tàr onora le aspettative. Il bravo regista è un mostro di tecnica, l’esponente inconsapevole di una tendenza ultra-cinefila (a partire dal calembour Lydia Tàr – Béla Tarr) che necessita di lunghissimi anni di riflessione, appunti e fatiche prima di arrivare alla vetta. Diciamolo chiaramente: siamo dalle parti di Stanley Kubrick e Terrence Malick. Le capacità sono d’altronde le stesse. Saremo blasfemi?
Marco Mrchetti
Tar
Regia, soggetto e sceneggiatura: Todd Field. Fotografia: Florian Hoffmeister. Montaggio: Monika Willi. Musiche: Hildur Guðnadóttir. Origine: USA/Germania, 2022. Durata: 158′.