RecensioniSlideshow

Speciale NOPE

Otis Haywood (Keith David) gestisce un ranch di famiglia con il primogenito OJ (Daniel Kaluuya) e l’altra figlia Em (Keke Palmer), l’attività prevalente è quella di mettere a disposizione cavalli addestrati per i set cinematografici. I due figli ereditano la proprietà quando il padre muore colpito da una monetina caduta incredibilmente dal cielo. L’eredità di Otis è pesante e presto i figli si trovano soffocati da problemi finanziari, tanto da costringere OJ a vendere alcuni cavalli a Jupe Park (Steven Yeun), proprietario di un parco divertimenti western poco lontano dagli Haywood. Jupe da bambino fu protagonista di una sitcom per famiglie che venne poi chiusa a causa di una tragedia inspiegabile: lo scimpanzé protagonista uccise davanti alle macchine da presa tutti i comprimari, tranne Jupe. Sopra i cieli del ranch e del parco tematico accadono però altri fatti inspiegabili: Em convince OJ a installare delle telecamere con lo scopo di registrare un video che possa testimoniare una presenza aliena e, in seguito, arricchirli mostrando le immagini nello show di Oprah Winfrey.

L’occhio che inghiotte…

… che nella cultura della nascente confederazione americana ha cominciato a divorare paesaggi e uomini a cavallo per raccontare il Nuovo Mondo ben prima del cinematografo; quell’occhio che nel film già teorico di Buñuel e Dalì, Un chien andalou (e siamo nel 1929), bisognava recidere con un rasoio, prima che, eccitato dal desiderio, diventasse onnivoro; quell’occhio che ossessionato dal guardare-per-possedere ha affinato protesi per riprodurre e diffondere immagini fino anche a smarrirne il senso; quell’occhio che avrebbe generato la società dello spettacolo debordiana e il godimento warholiano di esserne parte anche solo per pochi minuti, e che avrebbe trovato effimera soddisfazione nel guardare ed essere guardato attraverso la moltiplicazione di simulacri in rete; ebbene, quell’occhio ha preso forma nei cieli Californiani fotografati da Hoyte van Hoytema nell’ultimo travolgente film di Jordan Peele. Sotto forma di disco volante, in agguato dietro un nuvola che è uno scarabocchio scenografico, l’occhio è una creatura affamata di sguardi, ovvero di occhi umani che non possono rinunciare a guardare, come la moglie di Lot, come Orfeo.

Don’t look up verrebbe da dire, perché la catastrofe non si abbatta sugli uomini. Nope appare come un racconto mitologico con due eroi, OJ e la sorella Em, che per sopravvivere alla tempesta che ha colpito la famiglia sfidano un dio/mostro che ha deciso per qualche motivo di banchettare con le creature terrestri. Ma poi è tanto altro: bastino i minuti iniziali, dai titoli fino al massacro che si abbatte sul set di Gordy’s home, immaginaria sitcom degli anni novanta che vede protagonisti una famiglia e lo scimpanzé Gordy: qualcosa va storto in quella che sarà l’ultima puntata della sit, sentiamo i suoni della follia omicida della scimmia, e solo dopo comincia l’esplorazione del set in cui si aggira Gordy imbrattato di sangue sotto lo sguardo terrorizzato dell’unico sopravvissuto, il piccolo Ricky ‘Jupe’ Park. Dettagli macabri e una scarpa innaturalmente verticale sul pavimento. Qualcosa di inspiegabile è accaduto, così inspiegabile da scorrere misteriosamente come un torrente rosso sotto la crosta del film. O forse fuori dal film, perché in rete Peele aveva già diffuso immagini di un finto trailer di Gordy’s home, quasi fosse un ritrovamento da un archivio televisivo, found footage sporcato dal tempo, ossidato dal trauma e quindi sepolto tra i rimossi collettivi.

Una traccia narrativa che ritorna in uno dei momenti più spaventosi del film e che definisce una enorme zona d’ombra, come la nube in cui si nasconde l’UFO, anzi lo UAP (secondo moderna definizione), la creatura che all’apparenza ha le sembianze del classico disco volante. Non è un caso che Peele abbia prodotto episodi di The Twilight Zone. Gordy e il sopravvissuto Jupe, adesso padrone di un parco divertimenti western, che rievoca uno degli scenari de Il mondo dei robot diretto nel ’73 da Michael Crichton, sono metastasi nel corpo filmico, dove la spina dorsale è però la storia di OJ ed Em caduti in disgrazia dopo la morte del padre, un addestratore di cavalli colpito improvvisamente da oggetti metallici piovuti dal cielo, in particolare una moneta che gli ha perforato un occhio (proprio come il rasoio di Buñuel) conficcandosi nel cranio: condannato per aver guardato in sù il pover uomo (don’t look up!).

Ma non guardare sarebbe inopportuno, piuttosto bisogna saper guardare, e per farlo è necessario domandarsi come guardare e poi, eventualmente, cosa farsene dell’oggetto guardato, se e come condividerne l’esperienza trasformandolo in immagine. Mark Cousin in Storia dello sguardo (Il Saggiatore) suggerisce come per comprendere la storia dell’umanità sia imprescindibile comprendere dove hanno posato gli occhi uomini e donne e come hanno elaborato, attraverso diverse forme di racconto, la realtà.
Jordan Peele evitando scoperti apparati teorici, ci scaraventa in un film di genere che dovrebbe essere puro intrattenimento, due ore passate masticando altra fantascienza, altro horror ma in salsa western, dove una creatura dei cieli terrorizza cavalli e cowboys neri; si diverte a disseminare di misteri e indizi il racconto, ma solo per portarci all’origine non del guardare, non della rappresentazione dell’atto del guardare, ma vicinissimi al momento in cui l’atto stesso si fa cinema, a quei pochi istanti in cui la fotografia di Muybridge (era il 1878) diventa movimento: il primo cavallo in corsa di migliaia che solcheranno i grandi schermi e le praterie dell’ovest americano, ponendo il cavallo a fianco al treno come simbolo del cinematografo. Il cavallo di Muybridge corre davvero in Nope come fosse uno spettro, l’antenato dei cavalli di OJ, rievocato da Em che millanta una parentela con il fantino nero che posò per il fotografo britannico. E quell’immagine evanescente, sbiadita, rallentata, viva e morta al tempo stesso come lo sono le fotografie (e anche il cinema), è un altro oggetto misterioso del film, forse l’origine di tutti gli UAP, di tutte le immagini che cercano significato e sono il frutto di occhi sedotti dalla realtà e poi dall’opportunità di condividere in chiave spettacolare il piacere provato.
Se ci pensiamo è un processo reiterato ad ogni post, fino all’aberrazione di una catastrofe guardata con vorace godimento e registrata – adesso che possiamo farlo con un click – perché si faccia spettacolo, a prescindere, che sia l’esplosione di un’autocisterna in mezzo al traffico o una violenza di gruppo. La creatura dal cielo è un DioOcchio arrivato per punire e a sua volta inghiottire altri occhi e le protesi interconnesse, per mettere fine al desolante spettacolo della vita moltiplicata in un flusso infinito di immagini, troppo spesso senza etica, e neppure estetica.
Lo scimpanzé Godry stanco di fare l’idiota in una sitcom per famiglie, cancella semplicemente la sitcom e sveste il cappellino da idiota.

Alessandro Leone

5 buoni motivi per cui Nope è per Jordan Peele il film giusto al momento giusto

1) perché è un horror che però ha il grande merito di distaccarsi per forma e contenuto dalle due precedenti opere di Peele: mentre Get Out (sfolgorante pellicola d’esordio che gli ha garantito l’Oscar per la miglior sceneggiatura) e, con le dovute differenze, Us potevano essere incasellati alla perfezione nel genere, Nope – pur presentando i principali stilemi orrorifici – nel suo insieme lo è in modo atipico e sui generis, riuscendo così ad allontanare il talentuoso regista newyorkese da una classificazione che, se oggi va di gran moda pensando ad esempio a Robert Eggers e ad Ati Aster, alla lunga avrebbe corso il rischio di andargli stretta (Shyamalan insegna);

2) perché è un classico film di fantascienza in perfetto stile E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo ma, come viene intelligentemente detto da uno dei personaggi, qui non si parla più di UFO (Unidentified Flying Object) bensì di UAP (Unidentified Aerial Phenomena). E non si tratta di una distinzione solo onomastica – tant’è che anche la Nasa e il Pentagono oggi indagano ufficialmente e scientificamente questi fenomeni – ma sostanziale, perché l’alieno di Peele è lontano anni luce da quelli di Spielberg: in Nope viene descritto come un “brutto miracolo”, violenta metafora dei tempi che cambiano, essendo più un predatore territoriale arrabbiato e vorace che un simpatico omino verde alla disperata ricerca di un modo per tornare a casa;

3) perché è un western a tutti gli effetti, con tanto di ranch e cavalli, che permette a Peele di dichiarare tutto il suo amore per il Cinema grazie a quello che viene definito il “genere americano per eccellenza”. Lo fa attraverso la storia dei due fratelli protagonisti, discendenti di una famiglia di ammaestratori di animali per le Major hollywoodiane nonché pro-nipoti del fantomatico fantino che era al galoppo di un cavallo in uno dei primi esperimenti cinematografici della storia (la serie di figure Animal Locomotion del 1872 di Eadweard Muybridge). Ma soprattutto Peele sfrutta al meglio le potenzialità che il western gli concede: tecnologia IMAX per campi lunghissimi a mostrare lande desolate o cieli pieni di nuvole (nascondigli aerei semplicemente perfetti), e spericolate corse a cavallo per ricreare un immaginario che rimanda volutamente agli inseguimenti tra indiani e cow-boy;

4) perché è una lucida pellicola di denuncia e aspra critica sociale che, al contrario di quanto successo in passato, dove Peele si era concentrato sulla questione afroamericana principalmente rispetto ai temi del razzismo e delle disparità tra classi sociali, si apre ora a tutta la società: quello che viene messo sotto l’occhio del riflettore, infatti, è l’attuale smania di condivisione che trova nei social e nei media i principali strumenti per alimentare in modo morboso e alienante la voglia di “guardare”. Attraverso uno spettacolo nello spettacolo, Nope demonizza le leggi della medialità e la moderna necessità di trasformare ogni cosa e ogni momento in un show a discapito di una dimensione più intima e privata;

5) perché in fondo, al di là di qualsiasi rimando filosofico nascosto dietro alle nuvole e oltre ogni messaggio universale consacrato nella cruenta scena del massacro televisivo ad opera di una scimmia assassina (sicuramente il momento più inquietante di tutto il film con evidenti rimandi a una violenza di kubrickiana memoria), Nope è un perfetto blockbuster estivo: due ore di fughe mozzafiato, inquietanti attese, misteri angoscianti e, molto probabilmente, destinati a restare tali in nome di un orrore cosmico che il più delle volte – come ci ha insegnato Lovecraft – sfugge all’umana comprensione e alla necessità di trovare risposte a ogni fatto enigmatico.

Luca Masera
in collaborazione con cinemasera.blogspot.com

Nope

Sceneggiatura e regia: Jordan Peele. Fotografia: Hoyte van Hoytema. Montaggio: Nicholas Monsour. Musiche: Michael Abels. Interpreti: Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Brandon Perea, Michael Wincott, Steven Yeun, Keith David, Wrenn Schmidt, Devon Graye. Origine: USA, 2022. Durata: 135′.

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Back to top button
Close