La 78esima Mostra è nel pieno del suo svolgimento ed è forse inevitabile che l’attenzione di tutti si rivolga ai grandi nomi del cinema di finzione presenti in concorso. Tuttavia, vorremmo riservarci uno spazio per parlare di due gemme del cinema documentario un po’ nascoste tra i mille titoli del festival parlando di Three Minutes-a lengthening e Tranchées.
Three Minutes- a lengthening è un film saggio che trae le sue immagini da un filmato amatoriale girato da David Kurz nel 1938 in una cittadina ebrea polacca. Il breve filmato di tre minuti contiene le uniche immagini in movimento, per di più a colori, mai girate nella cittadina di Nasielsk prima della Shoah. L’intento del regista è quello di esaminare tutte le storie possibili contenute in quei frammenti di vita che, finché li guardiamo, non sono ancora finiti. Nel nostro percorso ci accompagnano le voci di Glenn Kurtz, nipote di David e Maurice Chandler, uno dei pochi sopravvissuti presente nel filmato originale. Le loro testimonianze sono intervallate dalla voce narrante di Helena Bonam Carter.
Il lavoro di Bianca Stigter, nota per altri film saggio quali I Kiss This Letter – Farewell Letters from Amsterdammers (2018), si inserisce nella ricca storia del cinema della Shoah, in un film che mostra il processo con il quale è stato possibile dare un nome alle persone filmate, anche in casi in cui sembrava impossibile. Il nome di Ratuwska, per esempio, proprietaria di un piccolo negozio di alimentari nella piazza del paese, viene ricostruito attraverso l’analisi al microscopio di un frammento di pellicola dove la donna appare sotto l’insegna del suo negozio. Solo alcune lettere sono davvero leggibili e occorre incrociare le testimonianze di alcuni sopravvissuti ai registri commerciali, per giungere al nome definitivo.
Il film si presenta come una ricerca appassionante e vitale che cerca di ridare dignità a delle persone cancellate dalla storia, senza indugiare troppo lungamente sulla dolorosa distruzione della comunità. In questo senso, il lavoro sulla memoria operato da Bianca Stigter sembra riportarci alla lezione di Lanzmann riguardo alla delicata questione etica della rappresentazione della Shoah attraverso il mezzo cinematografico.
Io credo che un documentarista e un cineasta rivoluzionario debbano recarsi, come ho fatto io per tutta la mia vita, nei punti caldi della storia per realizzare film che siano diversi dai “reportages a caldo”. Film che non si attacchino a tutti i costi alla realtà ma cerchino di scoprire la verità profonda delle cose.
(Joris Ivens)
Donbass, 2015: la camera a mano segue un soldato ucraino nel dedalo delle trincee sino alla base interrata di legno e lamiere. Dentro, un soldato si scalda davanti alla stufa, mentre, in profondità di campo, un compagno prepara la cena. La luce intermittente di una lampadina difettosa illumina il quadro impietoso dell’inverno in prima linea.
Loup Bureau debutta alla regia con un coraggioso documentario sul conflitto dimenticato tra Ucraina e separatisti filorussi. Il giornalista francese, esperto di questioni ucraine, si rivolge al cinema per raccontare una guerra di cui nessuno parla più, ma che continua senza sosta dal 2014, nell’estenuante logorio della trincea. Il regista sceglie di passare diversi mesi in prima linea in compagnia della 30sima brigata, immergendosi a pieno nella vita di trincea.
La struttura narrativa di Tranchées si presenta come un racconto corale che nasce spontaneamente dalle interazioni tra i soldati, troppo impegnati dalla vita sul fronte per curarsi della macchina da presa, in un film che ricorda più il Direct Cinema americano che il Cinéma Verité francese. Anziché percorrere la strada di Jean Rouch e degli altri maestri francesi che costruivano il documentario nel confronto e nella relazione costante col soggetto ripreso, Bureau sembra scegliere la lezione dei fratelli Maysles per cui il documentarista si fa “mosca sul muro”, ovvero si rende invisibile, perché ha abituato un soggetto già molto indaffarato alla presenza della macchina da presa.
La fotografia in bianco e nero fa risaltare le scene in esterno, quasi tutte girate alle prime luci dell’alba o dopo il tramonto mentre i soldati sono intenti a scavare e a riparare le fortificazioni negli unici momenti del giorno in cui si è meno esposti al fuoco nemico. Le silhouette dei soldati si alzano e si abbassano ritmicamente al ritmo della pala, mentre una buona metà del quadro è occupato dalla desolazione pianeggiante sopra le loro teste e dal cielo bianchissimo dell’inverno ucraino. Le scene di interno, tra le cucce della trincea, ci regalano uno spaccato di vita di ventenni normalissimi, che ammazzano il tempo giocando a call of duty, fino alla successiva granata nemica. Durante gli attacchi la camera a mano di Bureau si precipita nella fuga dei giovani soldati verso le fortificazioni più lontane. Un sergente fuma, rannicchiato nella cuccetta, mentre aspetta la fine dell’offensiva.
Nelle sequenze finali il montaggio si arrischia a mostraci la prima serata in discoteca degli ex soldati unita a una melodia straniante quanto struggente in cui dominano gli archi, quasi a rappresentare le difficoltà del ritorno alla vita civile di cui parlava uno dei soldati.
Il primo film di Loup Bureau, presentato fuori concorso, è certamente un ottimo inizio per il regista francese.
da Venezia, Isa Tonussi