Io non penso che sia interessante per un artista diventare giudice di cosa
è bene e cosa è male, o decidere quali culture sono nel giusto e quali no…
A me non interessa stabilire chi ha ragione, io sono una straniera, sono
un osservatore forestiero, e il lavoro che faccio è una combinazione
di che cosa esperisco nella mia propria storia personale
(Shirin Neshat, per Virus Mutation, novembre 1998)
Lo stile visivo di Shirn Neshat e Shoja Azari incontra la penna surrealista di Jean Claude Carrière (noto soprattutto per il sodalizio con Luis Buñuel) in The Land of dreams, sbarcando alla Mostra nella sezione Orizzonti Extra.
Al centro della storia troviamo Simin, una donna di origine iraniane incaricata di raccogliere e registrare i sogni dei cittadini americani per conto dell’ufficio del censimento statunitense. Mentre le oscure trame governative intendono controllare i sogni e manipolare le paure dei cittadini, Simin tenta di dare un nuovo significato ai sogni che le vengono raccontati. Anzitutto, la protagonista ritrae in foto i sognatori americani, per cimentarsi in seguito in una performance in cui traduce i sogni in farsi, assumendo le sembianze e gli atteggiamenti delle persone intervistate e fotografate. Infine, Simin posta sui social il video ottenuto, guadagnando così un largo seguito di follower iraniani.
Nei continui mutamenti dell’oggetto “sogno”, il surrealismo sembra rinnovare il confronto bidimensionale tra reale e onirico, aggiungendo la dimensione del virtuale. Il sogno, sostanza immateriale e sfuggente, viene razionalizzato e intrappolato nei racconti dei cittadini e successivamente convertito in file nell’immenso database del censimento. Ai cittadini viene chiesto di ripetere due volte il sogno a favore di registratore, nel maldestro tentativo di ottenere la maggiore precisione possibile di un materiale instabile e sfuggente. L’operazione di Simin aggiunge un ulteriore livello di complessità, perché espone all’interpretazione dei follower la sua performance, in un’operazione ironica e satirica che trasforma il sogno in spettacolo.
L’intera struttura narrativa è costituita da un gioco di mise en abîme continue, di storie nelle storie, in cui le gerarchie razionali si contaminano fino a perdersi in un’unica spirale di infinite connessioni. Dunque, l’elemento centrale che tiene saldamente unite le vicende è l’impianto estetico costruito dai due registi, in uno stile visivo che esalta la polisemia e le proliferazioni delle interpretazioni possibili. Lo smarrimento di un percorso narrativo univoco è sintetizzato dalla sequenza finale in cui Simin dispone per terra le fotografie dei cittadini ritratti, insieme a quelle dei suoi parenti iraniani (emigrati negli States dopo la rivoluzione), in un deserto bianchissimo che fa da sfondo alle vicende dell’intero film. La plongée finale si allontana progressivamente dalle foto disposte a spirale dalla protagonista in un movimento che, insieme, schiaccia l’immagine nella sua bidimensionalità e genera un senso di profondità nel maёlstrom delle fotografie.
Shirin Neshat e Shoja Azari, già vincitori del Leone d’Argento per la regia di Donne senza uomini nella 66esima edizione della Mostra, ci regalano una salace satira politica ricchissima a livello estetico e narrativo in un film di rilievo nel palmares della 78esima Mostra.
da Venezia, Isa Tonussi