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2024: Oscar al politicamente corretto… o forse no?

Era il 2017 quando, a poche ore dalla cerimonia degli Oscar, un’agguerrita Jodie Foster e un baldanzoso Michael J. Fox trascinavano Hollywood in piazza per protestare contro il neoeletto Donald Trump. Senza nemmeno concedere tempo al presidente di insediarsi alla Casa Bianca e stilare un’agenda politica programmatica, il mondo della cultura, o almeno il suo segmento mediaticamente più rappresentativo, sputava fuoco e fiamme contro una visione della società potenzialmente esclusiva e classista. Proteste pretestuose, si dirà, ma che assumono una logica inquietante soltanto se ricondotte ai caporioni che le avevano innescate, ovvero una lesbica dichiarata e un handicappato che, con l’arroganza tipica delle minoranze “disagiate”, si trasformavano nei moderni Soloni della pubblica morale. L’imminente cerimonia di premiazione seguiva d’altronde un copione ben preciso, con almeno tre film su nove in concorso che si adeguavano a quelle stesse istanze di inclusione e appartenenza preventivate dall’Academy per il 2024. In questo clima di sospetto crescente, di pelosa diffidenza e continua ambiguità ideologica di cui la gazzarra dei contestatori non era che il prodromo, il guercio fece la parte del re dei ciechi e quatto quatto si accaparrò l’ambita statuetta. Non c’è da stupirsi che nessuno avesse mai sentito parlare di Barry Jenkins, e che dopo il trionfo di Moonlight (film su spacciatori neri in contesto periferico), nemmeno della pellicola vincitrice. Fu la vittoria di Pirro del banale, il seme di una neonata tendenza di costume che, sottomettendosi all’ansia omologatrice del conformismo, consacrava il suo Ciapaiev americano.

Quattro anni dopo quella tensione al bolscevismo progressista si è meglio strutturata, da un lato sfruttando il trumpismo come trampolino di lancio, dall’altro intuendo che un’idea non può aspirare a una propria dimensione totalizzante se privata di un’adeguata consacrazione istituzionale. Per questo Hollywood non poteva più permettersi di sguinzagliare i reparti d’avanguardia all’arrembaggio della società conservatrice, aveva bisogno di una strategia politica, fatta di intellettuali riconosciuti, potenti produttori, filosofi forse improvvisati in qualche salotto televisivo; ma capaci di indicare al pubblico non tanto cosa fosse giusto pensare, ma come fosse giusto farlo. Il risultato, coerente con le contemporanee tendenze del piccolo schermo, era persino scontato: a partire dal 2024 una pellicola potrà essere candidata agli Oscar soltanto a patto che almeno uno degli attori protagonisti appartenga a una minoranza etnica o, in alternativa, che il 30% del cast sia selezionato da almeno due tra le seguenti categorie: donne, omosessuali, disabili e appunto ancora le immancabili minoranze. Potremmo anche storcere il naso, ma la nostra eventuale indignazione non riguarderebbe nulla più che l’aspetto matematico della questione: possiamo cioè ammettere che, a fronte di una popolazione omosessuale stimata in circa il 2,7% del totale, una quota tanto elevata di soggetti omosessuali pretenda a gran voce la propria rappresentanza nel parlamento dell’immaginario pubblico? Sì, a quanto pare, se è vero com’è vero che nel nostro paese sono bastate le arringhe di una Liliana Segre (fondate su dati del tutto immaginari e fuori contesto) per istituire fumose commissioni di controllo sociale e paventare inesistenti congiure antisemite. La preoccupazione è tanta, ma combattere decisioni modellate sui più diffusi principi etici finisce per risultare quanto meno donchisciottesco. Probabilmente gli storici del futuro ricorderanno l’epoca corrente come la dittatura (più che la rivendicazione) della diversità, dove un 2,7% di omosessuali aspirava a un 30% di visibilità forzata (pur in condivisione con un 13% di afroamericani o di altre categorie numericamente inferiori, secondo l’estro del selezionatore); e poco importa che le donne, la cui influenza politica e sociale è in costante crescita, continuino a vittimizzarsi per assumere nuove sfumature di potere. Il pluralismo è innanzitutto la costruzione di un’identità di maggioranza attraverso l’approvazione della minoranza.

Via col vento

Tra l’altro, sul Corriere, Maurizio Porro si è dedicato a una disamina abbastanza divertente dei film che, premiati con l’Oscar, non avrebbero vinto se si fossero trovati a gareggiare con le regole restrittive imposte dall’Academy. Certo si tratta di un boutade forzatamente anacronistica, che anzi è boutade proprio perché anacronistica (ogni film è figlio del suo tempo), ma il principio sotteso non diverge dall’altra invece serissima tendenza del momento: la preclusione di Via col vento (1939) di Fleming o Nascita di una nazione (1915) di Griffith dall’empireo di grandi classici proprio perché figli del loro tempo. Allo stesso modo in cui chi scrive difende l’approccio tendenzialmente strutturalista alla settima arte, con la scomposizione dei significati e la loro ricollocazione storico-cronologica, non si può pretendere dal mondo intero la medesima ampiezza di vedute. L’etica è di fatto una categoria di pensiero, e benché sia forse limitante filtrare le cose attraverso le sue maglie, peccheremmo di un eccesso di ingenuità, o di supponenza intellettuale, nell’obbligare la società civile ad applicare le medesime categorie di analisi critica all’arte. Il fatto è che la storia del cinema è molto breve per quanto molto articolata, e pertanto cerchiamo di seguirne gli sviluppi e le contraddizioni nella sua interezza. Eppure, con tutte le rivalutazioni, le dimenticanze e le riscoperte (spesso postume) di cui la letteratura o la pittura ci ha resi edotti, dovremmo ricordare che le opere si danno nella loro epoca finendo per essere riscritte, rivalutare, alle volte persino accantonate in quella successiva. Non esistono capolavori assoluti nell’arte, e il fatto che si accompagni l’aggettivo assoluto al sostantivo capolavoro dimostra l’impotenza e la malafede di chi colloca una specifica opera sul piedistallo dell’eterna legittimazione. Nessuno può stabilire se Via col vento sarà ancora considerato un capolavoro per le generazioni future, cioè che lo sarà sempre indipendentemente dal contesto, così come molti dimenticano, per esempio, la recente riscoperta di Caravaggio da parte di Roberto Longhi. Gli storici della lingua parlano di processo diacronico opposto a quella sincronico, dove si intende con il primo termine l’evoluzione fattuale dei fenomeni con tutte le oscillazioni, i mutamenti di gusto e di pensiero che lo sviluppo storicistico comporta; e con il secondo l’hic et nunc delle cose, figlie del loro momento, e sovente destinate a restare orfane.

L’uomo che ride

Un caso abbastanza emblematico è quello del famigerato codice Hays, introdotto nei primi anni trenta per arginare la presunta epidemia di immoralità che dal salotto privato dei divi finiva per gocciolare su giornali e mezzi di informazione. In una famosa sequenza de L’uomo che ride (Paul Leni, 1928), Olga Baclanova esce dall’acqua completamente nuda, si avvolge in un comodo accappatoio e comincia un gioco di seduzione con il giullare di corte che non ha nulla da invidiare a quello che Sharon Stone avrebbe intrattenuto con i poliziotti in Basic Instinct (1992).
E proprio come la Stone nella pellicola di Paul Verhoeven, anche la Baclanova non porta le mutandine, e cincischiando civettuola con i lembi sbilenchi dell’accappatoio, dà prova di grande modernità di costume. Di una pelle di donna nuda non si sarebbe più nemmeno avvistata l’ombra per i trentacinque anni successivi, quando Jayne Mansfield regalò al pubblico la paradisiaca visione delle sue chiappe in Promesse! Promesse! (1963). Ciononostante, in questo periodo di censura, di persecuzioni ideologiche e contingentamenti estetici, il cinema americano crebbe, prosperò e ci lasciò in eredità una serie di capolavori irripetibili che, a detta di molti studiosi, rappresentano ancora il vertice compiuto e irraggiungibile dell’arte cinematografica. Ovviamente nel caso della deriva politically correct di Hollywood non sarebbe corretto parlare di censura. Il codice Hays aveva una funzione in buona sostanza sottrattiva, in quanto stabilendo regole e approcci metodologici alle più svariate materie (in particolare quelle pruriginose), di fatto impediva a registi e produttori di filmare situazioni imbarazzanti.

Oggi assistiamo a una censura aggiuntiva, che non fonda il proprio paradigma sul “tu non devi”, ma semmai sul comandamento contrario: “tu devi inserire, includere, affiancare…”. Il meccanismo è più simile allora al principio ideologico di epoca staliniana, così come stabilito dal Congresso degli scrittori sovietici del 1934, che codificava con estrema attenzione al dettaglio i grandi temi su cui si sarebbe dovuto concentrare il cinema russo. Questo atto di ingerenza politica sanciva la nascita ufficiale del Realismo Socialista, corrente programmatica del Partito a cui era affidato il compito di educare l’ancora rozzo popolo bolscevico, spiegando con formule semplici e schiette la costituzione di una società più giusta, equa, e appunto inclusiva. Del tutto casualmente (o forse no), il 1934 è lo stesso anno di introduzione del codice Hays sul mercato americano. Contestualizzando perciò le derive autoritarie di Hollywood, scopriamo che di autoritarismo non sarebbe nemmeno lecito parlare, né di attitudini censorie particolarmente spiccate, ma di frutti imperfetti perfettamente in linea con la morale comune: benché sia sempre difficile stabilire quanto l’industria abbia influenzato la società e quanta parte abbia avuto la società nel categorizzare le tendenze dell’industria, di fatto il risultato non cambia.
Il cinema è vittima e protagonista degli uomini che lo producono, lo sognano e che se ne lasciano ammaliare. E si noti, forse con un certo paradosso, che non i moralizzatori di oggi, ma i contestatori di ieri hanno abbattuto il piedistallo su cui si ergeva, bello e imponente, l’allora capolavoro di Paul Leni. Al corpo discinto della Baclanova, il cinefilo contemporaneo preferisce le gambe di Sharon Stone, a dimostrazione ulteriore del teorema di cui sopra, per il quale non si dà il capolavoro di per sé, ma sempre come frutto del suo contesto (e della relativa contestualizzazione). E nel mezzo? Tra la Baclanova e la Stone certo c’è un mare di censura, ideologia, ripensamento: ebbene lì abbiamo il meglio, o una parte del meglio, che il cinema abbia prodotto.

Marco Marchetti

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