DAU non è solo un film, è un’esperienza gigantesca e folle progettata da Ilya Khrzhanovsky, iniziata addirittura nel 2008, ma che solo oggi vede la luce. Che cosa è DAU? Un esperimento più che un film, anche perché di film ce ne erano due in questa Berlinale e, si dice, ce ne siano almeno un’altra dozzina già pronti per essere mostrati al pubblico. DAU.Natasha è il film presentato in Concorso e porta la firma di Ilya Khrzhanovskiy con Jekaterina Oertel, mentre DAU.Degeneratsiya è il lavoro fuori dal Concorso che viene accreditato a Ilya Permyakov insieme allo stesso Khrzhanovskiy.
Il progetto inizia in un paesino dell’Ucraina, Charkiv, dove Khrzhanovsky ricostruisce l’Accademia delle scienze sovietica, in funzione dal 1938 al 1968 e dove operò il fisico Lev Landau, ma mette in scena anche l’umanità che all’epoca lo popolava. Il regista russo riunisce 400 persone in un’area di 12 mila metri quadrati, un ex set cinematografico andato in malora, e cerca di ricalcare minuziosamente la vita dell’epoca, dal cibo agli abiti, dalla tecnologia agli interrogatori del KGB. Il tutto per quasi tre anni. Matematici, artisti, filosofi, attori quasi tutti non professionisti, tecnici e manovalanze, praticamente tutti rinchiusi in questo spazio. L’obiettivo, come quello del fisico Landau, è esplorare le basi e i limiti della comprensione intellettuale e dell’azione umana, lavorando verso la creazione di un “nuovo essere umano”.
Khrzhanovsky ha girato senza mai avere una sceneggiatura, ha improvvisato moltissimo prendendo spunto da quel che succedeva sul set. Il risultato di un progetto cosi megalomane sono state 700 ore di girato in 35 millimetri. Una assurdità degna di un genio o di un pazzo che ha portato ovviamente a discussioni, liti, sospensioni, disagi psichici anche per lo stesso Khrzhanovsky.
A più di dieci anni di distanza dall’inizio si iniziano a vedere i frutti di questo immenso lavoro, già l’anno scorso a Parigi è stata presentata un’installazione con alcuni materiali girati e montati, ora qui a Berlino è stata la volta dei film. Diciamo subito che DAU.Natasha ha sconvolto tanti tra gli spettatori della Berlinale, in molti ne sono rimasti però attratti, cinematograficamente, intellettualmente e morbosamente.
Si tratta di un film incredibile perché tutto quanto detto sopra si vede davvero sullo schermo, si percepisce la realtà: Natasha e Olga sono le protagoniste, lavorano in una piccola mensa di un istituto di ricerca sovietico segreto, il cuore pulsante dell’universo DAU, tutti entrano qui: impiegati dell’istituto, scienziati e ospiti stranieri, come Luc Bigé, un medico francese. Natasha inizia una relazione con lui, ma non prima che lei e Olga parlino a lungo dell’amore che li mette a dura prova. Il sesso con Luc e le bevute con Olga sono estreme, lunghissime e perverse. Presto interviene il Kgb, i servizi segreti sovietici, guidato da Vladimir Azhippo che fa capire duramente a Natasha come deve comportarsi.
In 2 ore e venti minuti il film è composto praticamente da quattro sequenze: le due donne nella mensa con i vari avventori; il sesso tra Natasha e Luc; le due donne che si ubriacano e litigano; l’interrogatorio al KGB. È cinema radicale che si muove tra finzione e realtà, Khrzhanovsky scruta davvero gli abissi della psiche e rivela gli estremi degli esseri umani. Il leggero movimento della macchina a mano di Jürgen Jürges (Premio alla Migliore fotografia) è sempre avvolgente e ti porta dentro l’immagine, la recitazione è talmente spinta verso il reale che a volte pensi sia un documentario. In certi momenti sembra Cassavetes, per l’impressionante realismo che solo mischiando la vita vera con la narrazione si riesce a ottenere. A volte pensi a Fassbinder, per certa durezza che si vede sullo schermo. Ma forse questi collegamenti sono dovuti alla clamorosa Natasha (Natalia Berezhnaya) che sembra fondere Gena Rowlands con Hannah Shygulla.
Non è cinema per tutti ovviamente, ci sono eccessi che molti non hanno digerito, e infatti hanno gridato allo scandalo e alla pornografia. È evidente a tutti che quel che vediamo sullo schermo, vodka e sperma compresi, fluivano liberamente sul set. Tutto è portato al limite, anche la narrazione è estenuante, le sequenze sono infinite, ma è tutta l’operazione DAU che va verso la degenerazione, come tra l’altro dice già il titolo del secondo film presentato qui. La sua eccezionalità è la sua forza, la drammaticità sorprendente è il risultato. Il film è perciò qualcosa che va oltre l’estrema analisi del totalitarismo, diventa un’esperienza disturbante e intimamente inquietante che merita di essere vista e pensata. Ci auguriamo che i nuovi film DAU già pronti trovino spazio nei prossimi festival, magari già a partire da Cannes.
da Berlino, Claudio Casazza