Buenos Aires, 1971. Carlos (Lorenzo Ferro) è un diciassettenne dall’aspetto etereo e dall’aria sicura. Adora entrare in abitazioni di lusso e negozi per rubare qualsiasi cosa. Non lo fa per bisogno, piuttosto è un passatempo, convinto che violare la proprietà privata sia segno tangibile di libertà. Attirato da Ramon (Chino Darín), un ventenne con una famiglia che sopravvive attraversando costantemente il confine della legalità, crea un sodalizio che costerà la vita a diverse persone. Carlos – detto Carlito – ha il grilletto facile e le sue imprese non tarderanno a insospettire anche i genitori, una coppia di persone oneste e dedite che si è guadagnata lavorando tutto ciò che ha.
Tratto dalla storia vera di Carlos Robledo Puch, condannato all’ergastolo per una serie di efferati omicidi, il film di Luis Ortega, co-prodotto dai fratelli Almodovar, non nasconde una certa familiarità con El Clan di Pablo Trapero. La stessa spudoratezza nel perpetrare il male, nell’infliggere dolore, nella rappresentazione della violenza come conseguenza naturale di un piacere personale (edonistico per Carlos, economico per il clan). Ma tra le due storie ballano dieci anni, il cruciale periodo della dittatura, per cui se El Clan raccontava i rigurgiti di quella terribile stagione di morte, qui se ne intravedono le premesse, con la polizia già a caccia di oppositori politici, vigliaccamente organizzata per frenare istanze rivoluzionarie dei giovani ribelli attraverso la tortura. Un quadro che non spiega l’anarchia senza radici di Carlos, il suo deserto emotivo, eccezion fatta per l’attrazione omosessuale verso Ramos (in verità più una pulsione che un sentimento).
Ortega scandaglia il cervello di Carlos seguendone le azioni, la freddezza, l’ironia, le provocazioni; la famiglia, prodotto borghese, è un porto dove ritornare all’occorrenza, eventualmente per assaporare il suo piatto preferito (cotoletta e purè), e rafforzare una barriera ideologica tra lui e il padre che affonda nella psicopatologia. Eppure in Carlos c’è una strana fascinazione, non solo diabolica da angelo sterminatore, perché nei suoi gesti c’è una grazia spiazzante, capace di valorizzare anche la tenebrosità di Ramos. Tra i due si instaura una relazione ambigua, che ha il sapore degli sconvolgimenti adolescenziali. Ma adolescenziale è pure la superficiale, gelida, esibizione di potere di Carlos, quasi una fantasia superomistica concretizzata attraverso due rivoltelle che sparano con la stessa facilità con cui finge di sparare un bimbo con un fucile giocattolo.
Carlito sovverte le teorie lobrosiane che associano aspetto fisico a comportamenti, al tempo stesso mette sotto scacco i preconcetti che associano il male all’anormalità. Un tarlo per una società che dal peronismo si sta avviando verso la dittatura dei colonnelli.
“Pensi che una persona normale farebbe ciò che hai fatto tu?” – “Certo mamma” – risponde Carlito senza tradire emozioni. Questo è il punto. In Argentina, e in buona parte del Sud America, agli inizi degli anni 70 la normalità è negoziata, fiumi di sangue stanno per scorrere copiosi e la violenza sarà istituzionalizzata. Carlito, bandito efebico che balla nei salotti fighetti che ha appena svaligiato, non è poi una istantanea surreale, rafforzata da colori accesi, luci taglienti e bagliori soffusi, di un paese in rapido declino morale, ma semmai un ritratto iperrealista, rafforzato da quegli stessi significanti pittorici e da una colonna musicale (Gigliola Cinquetti su tutti) che è tragica sferzante ironia.
Alessandro Leone
L’angelo del crimine
Regia: Luis Ortega. Sceneggiatura: Luis Ortega, Sergio Olguí, Rodolfo Palacios. Fotografia: Julián Apezteguia. Montaggio: Guille Gatti. Interpreti: Lorenzo Ferro, Chino Darín, Daniel Fanego, Mercedes Moran, Cecilia Roth, Luis Gnecco, Peter Lanzani. Origine: Argentina/Spagna, 2018. Durata: 118′.