Il terzo appuntamento con il cinema giapponese, in collaborazione con gli amici di Como della Libreria del Cinema, è con il capolavoro di Akira Kurosawa Rashomon, anno 1950. Il relatore è il critico cinematografico Fabrizio Fogliato.
“La verità è noiosa, la menzogna è divertente”.
Scrive Kurosawa nella sua autobiografia: “L’egoismo è il peccato originale dell’uomo. Gli esseri umani sono incapaci di essere onesti con se stessi, non sanno parlar di se stessi senza abbellirsi. […] L’egocentrismo è un difetto che ci portiamo dietro dalla nascita, è il più difficile da estirpare. Rashomon è come una misteriosa pergamena, la pergamena dell’io, che si srotola davanti ai nostri occhi”. Per costruire quest’apologo sull’impossibilità di comprendere il significato e il senso delle azioni degli uomini, il regista fruisce della sceneggiatura di un giovane esordiente: Shinobu Hashimoto.
Lo script si presenta come un ibrido e coniuga ben quattro fonti di riferimento. A quella più evidente dei due racconti di Ryunosuke Akutagawa si aggiunge quella di due antichi aneddoti del periodo Heian a cui gli stessi racconti fanno riferimento. Testi contenuti nel Konjaku Monogatarishu, trentun volumi di provenienza indo-cinese caratterizzati da soggetti narrativi imperniati su vicende di imperatori, guerrieri, amori, demoni e creature fantastiche. Questo testo datato circa 1120 d.C., redatto da autori ignoti, è un’antologia composta da 1039 setsuwa (aneddoti), i quali servivano ai monaci per divulgare gli insegnamenti di Buddha. La brevità del testo, l’essenzialità dei concetti e il sottotesto morale e spirituale garantiscono l’immediatezza comunicativa per un pubblico analfabeta. Da due di questi stesura, Akutagawa reinventa due racconti crudeli indirizzati a denunciare la degenerazione morale e la perdita di coscienza civica che caratterizzano l’epoca Heian (794-1185) caratterizzata da terremoti, epidemie, guerre e cicloni che portano con sé solo desolazione e distruzione oltre che egoismo e immoralità. Lo scrittore morto a soli 35 anni nel 1927 era terrorizzato dall’idea di diventare pazzo e si sentiva sempre più isolato in un mondo che gli risultava incomprensibile. I due racconti Rashomon (1915) e Nel bosco (1921) offrono a Kurosawa la possibilità di ragionare sul Giappone post bellico e occupato degli americani stabilendo una sorta di linea di connessione tra le catastrofi naturali dell’epoca Heian con quelle artificiali di Hiroshima e Nagasaki. Se Nel bosco permette al regista di lavorare sulla frequenza cinematografica costruendo un racconto ripetitivo che mostra le quattro diverse versioni dell’omicidio di un samurai, Rashomon fornisce al film la necessaria cornice. In questa cornice – ambientata sotto la celebre “Porta di Rasho” ridotta ad un cumulo di macerie, sferzata da una pioggia torrenziale e “custode” di un gruppo imprecisato di cadaveri – hanno luogo i commenti e le riflessioni di una sorta di coro in cui le tre voci rappresentate sono altrettanti paradigmi di tipologie umane: il boscaiolo, l’uomo semplice sconvolto dall’impossibilità di capire; il passante che con opportunismo cerca di ottenere un beneficio da ogni situazione; il monaco, l’idealista che afferma che quanto ha udito e, forse, visto è talmente mostruoso da non poter essere paragonato né alla peste né alla guerra; un evento che ha spezzato la sua fede nell’umanità (come confessa egli stesso).
Il film strutturato con un prologo, quattro atti e un epilogo rivela – attraverso i racconti dei tre paradigmi – la menzogna che ognuno dei tre personaggi nella vicenda del bosco confessa per allontanare da sé la responsabilità dei propri atti. Rashomon propone quindi un’idea relativistica della verità aiutato in questo dall’atmosfera di sogno e di desiderio erotico che ammanta la vicenda nel bosco; il film è anche una riflessione sull’impossibilità di comprendere la natura umana e sulla fallibilità dello sguardo. Ogni versione manipolata dai protagonisti della vicenda nel bosco mostra il “divertimento” della menzogna che garantisce la possibilità di raccontarsi secondo un’eccellenza morale e comportamentale che in realtà maschera inettitudine, meschinità, amoralità. Ognuno confessa non ciò che è accaduto ma ciò che avrebbe voluto accadesse. L’alternanza tra il “pensiero” che prende forma sotto la “Porta di Rasho” e l’azione che si compie nel bosco restituisce al film una ritmica musicale abilmente orchestrata dal regista sulle note della rivisitazione del Bolero di Maurice Ravel operata da Fumio Hayasaka. Scelta che conferisce al film un’accentuata vena erotica come rivelano due particolari sorprendenti: il desiderio di Tajomaru di possedere la donna del samurai – dopo averla vista passare davanti ai suoi occhi – è anticipato da una breve inquadratura in cui, spostando lentamente la spada, prefigura un’erezione. Successivamente – dopo aver raggiunto la donna e dopo essere stato protagonista, con lei, di un balletto seduttivo – l’attira a sé baciandola con vigore: quando la donna cede alla violenza il pugnale che lei ha in mano cade e penetra nel terreno soffice ed erboso (dettaglio erotico che definisce la cifra sublime del film).
Non va, infine dimenticato che Rashomon è anche – e, forse, soprattutto – un jidaigeki cioè un film di samurai visto che tutti i topoi di riferimento sono presenti: il samurai, il brigante, l’opposizione tra i rispettivi valori, il duello con le katane, l’oggetto valore: la donna ma anche la spada e il pugnale. Rashomon è, dunque un film genuinamente popolare (nel senso più alto del termine) capace – come avvenuto in pochissime altre occasioni – di coniugare arte e spettacolo. Akira Kurosawa pone la macchina da presa all’interno della coscienza umana con l’intento di sondare le labirintiche traiettorie dell’agire di uomini e donne, rivelando come la verità sia imperscrutabile e come lo sguardo – dai diversi punti di vista – alteri ulteriormente la percezione degli eventi: più i racconti delle vicende nel bosco si addizionano di particolari più diventano aggrovigliati e incomprensibili. L’epilogo del film – ben diverso da quello tranchant, nichilista e nero del racconto di Akutagawa – offre con le sue sfumature umanitarie un anelito di speranza, perfetta chiosa alla riflessione precedente: l’amore (parentale) semplice e disinteressato è l’unico antidoto possibile per curare il cinismo glaciale della ragione e della menzogna.
Bibliografia
Akutagawa Ryunosuke, Rashomon e altri racconti, TEA, Milano 2002
Della Gassa Marco, Rashomon, Lindau, Torino 2012
Kurosawa Akira, L’ultimo samurai – Quasi un’autobiografia, Baldini e Castoldi, Milano 1995
Tassone Aldo, Akira Kurosawa, Il Castoro/la Nuova Italia, Milano 1981
Fabrizio Fogliato
(Storico e critico del cinema)
http://www.fabriziofogliato.com/