Prendersi lasciarsi riprendersi, rincorrersi per quindici anni attraversando l’Europa divisa in blocchi e in perenne guerra (fredda). Lui, Wiktor (Tomasz Kot), è un musicista, lei, Zula (Joanna Kulig), una cantante. Si conoscono nel 1949 quando lui, parte di un comitato di selezione, deve reclutare artisti per quello che diventerà il “Mazowsze”, corale di cantanti e danzatori di tradizione polacca. Lei è un’aspirante che toglie il fiato. L’attrazione diventa amore, ma le loro strade si dividono quando lei decide di non seguire lui oltre confine, una fuga pianificata e apparentemente condivisa, per lasciarsi alle spalle ciò che rimane della Polonia post-bellica. Pawlikowski, dopo il folgorante Ida, torna a raccontare il suo paese nei difficili anni del dopoguerra, attraverso un’altra storia intima di coppia. In Ida c’era una novizia e il suo Dio, in Cold War una relazione più terrena, esplosiva, melodrammatica in senso stretto, dove, si capisce, i protagonisti ingaggiano una lotta impari con il destino che li vorrebbe separati e incompiuti.
Il regista ricorre nuovamente al bianco e nero e al formato più prossimo al quadrato, scelta autoriale in cui coincidono forma e significato. Se nel film precedente la misura del quadro sposava un profilmico spoglio, l’austerità degli interni con lo spostamento concettuale ai margini delle figure umane (a evidenziare quanto la protagonista fosse a disagio nello spazio), in Cold War Pawlikowski sembra addirittura cercare una compressione maggiore, spingendo spesso sui neri fino a cancellare i margini destro e sinistro dell’inquadratura, riducendo il visivo a uno squarcio centrale dello schermo, soprattutto nella seconda parte del film, quando l’irrequietezza dei protagonisti si fa più disperata e i loro corpi sembrano divincolarsi dalla materia oscura come i Prigioni michelangioleschi. Parigi, come controcampo di Varsavia, non attenua il mal di vivere, seppur incanta l’artista con la libertà frizzante quanto effimera del jazz e concede una chance alla voce di Zula. La costante tra i due rimane un’inspiegabile impossibilità di stare insieme. A tratti si ha l’impressione che il melodramma, in quanto genere, incateni la vicenda e i suoi teoremi esistenziali, che sbarri sin da subito ogni via d’uscita, già nel ’49, quando Wiktor e Zula si scelgono e individuano inconsapevolmente la loro parabola magnifica e dannata. C’è un momento figurativamente molto forte nel primo capitolo di questa storia: gli amanti si ritrovano tra le rovine di una chiesa che ricorda certe ambientazioni di Tarkovskij, la macchina da presa è posizionata all’incrocio tra ciò che rimane della navata e del transetto, inquadra dal basso il tamburo della cupola adesso inesistente, è un cilindro perfetto aperto sul cielo bianco inscritto nel quadro del campo visivo, pensiamo alla Camera degli sposi di Mantegna; non è casuale, suona come promessa, accentuando così la portata drammatica di ogni frattura dopo ogni ritorno in questo detour di salti nel tempo tra Germania, Francia, Jugoslavia, ancora Polonia. Cinema dell’eterno ritorno. Storie che si ripetono come nella vita, destinate a soffocare in un deserto di polvere senza lasciare traccia.
La storia d’amore raccontata da Pawel Pawlikowski ha qualcosa di già sentito, già agli albori del cinematografo che il melodramma lo ha trasformato in struggenza grazie ai signori della narrazione emozionale, da Griffith a Murnau fino alla sorprendente Alice Guy.
Perché non un film muto allora? Togliamo i dialoghi a Cold War, scopriremmo che non perderebbe nulla perché, dal formato 1:1,33 al bianco e nero, Pawlikowski è lì che guarda. Se il film è sonoro è perché non può rinunciare alla musica, ovvero: al contrasto tra folk e avanguardia, tra passato e presente, tra necessità di preservare una cultura ancestrale in pericolo di estinzione e la voglia matta di farsi sedurre dal nuovo. In questo, più che nella relazione tra Zula e Wiktor, è la guerra fredda del titolo, questo conflitto definisce i processi storici che si mangiano i protagonisti, riducendoli alla schizofrenia da perdita di identità, condannati per questo a patire l’eterno ritorno dell’amore e dello smarrimento, come un supplizio. La circolarità che in Ida si risolveva con il cammino verso il convento da cui la novizia era fuggita, in Cold War è moltiplicata fino all’epilogo visionario, a sancire un matrimonio che unisce e divide e unirà e dividerà ancora fuori campo, laddove la vista migliore forse mitigherà la sofferenza.
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Alessandro Leone
Cold War
Sceneggiatura e regia: Pawel Pawlikowski. Fotografia: Lukasz Zal. Montaggio: Jaroslaw Kaminski. Interpreti: Tomasz Kot, Agata Kulesza, Joanna Kulig, Borys Szyc, Cédric Kahn, Jeanne Balibar, Adam Woronowicz. Origine: Polonia/Francia/GB, 2018. Durata: 88′.