Secondo appuntamento con il cinema giapponese, un percorso che la rivista Cinequanon condivide con il cineclub di Como Libreria del cinema. Sotto la lente del critico Andrea Bettinelli è il film di Kenji Mizoguchi Vita di O-Haru.
Presentato nel 1952 alla Mostra del cinema di Venezia, dove vince il Leone d’argento, Vita di O-Haru (Saikaku ichidai onna) apre la stagione della fortuna critica e di pubblico di Mizoguchi in Occidente.
Il film è tratto da un romanzo del Seicento firmato da Saikaku Ihara, il più grande esponente della letteratura Genroku, espressione della forte ascesa della classe mercantile nel periodo Edo. Mizoguchi, che riadatta il romanzo con l’aiuto di Yoshikata Yoda, suo sceneggiatore di fiducia, si muove con molta libertà nei confronti del testo di partenza: mantiene pochissimi spunti narrativi (tra cui il finale) e soprattutto ne cambia il senso complessivo, trasformando il racconto libertino di Saikaku in un apologo sulla condizione di sfruttamento della donna all’interno della società patriarcale e maschilista giapponese. L’ambientazione storica non deve trarre in inganno sul carattere di attualità del film: è nota la vicenda familiare toccata alla sorella del regista, data in adozione dal padre e poi venduta come geisha dalla famiglia adottiva, un episodio che lasciò un segno profondo nel regista e che viene spesso chiamato in causa per spiegare la predilezione del suo cinema per i personaggi femminili. E tuttavia secondo Dario Tomasi, massimo conoscitore in Italia dell’opera di Mizoguchi, “il regista è palesemente vittima di una concezione trascendentale della donna, che finisce con il mitizzarla, rappresentandola ancora una volta come un oggetto, sebbene oggetto di culto e d’ammirazione”.
Altra innovazione rispetto al romanzo di Saikaku – strutturalmente piuttosto debole – è l’architettura narrativa che presenta gli episodi-chiave della vita della protagonista, figlia di un samurai decaduto, all’interno di un lungo flashback che ha origine dalla sequenza nel tempio dove, tramite un effetto di dissolvenza, il volto di una statua le riporta alla memoria un antico amore. La biografia di O-Haru assume la configurazione di un inesorabile descensus ad inferos che procede per tappe, sfocia nella prostituzione e nella vita di strada e culmina con la svolta religiosa: Maria Roberta Novielli, autorevole studiosa di cinema giapponese, ha ravvisato in questo infierire sulla sorte della protagonista un atteggiamento sadico da parte del regista; osservazione che sembrerebbe tuttavia smentita dall’analisi testuale del film. Per fare un esempio, durante la sequenza in cui O-Haru è costretta dai samurai di corte a vedere a distanza, senza possibilità di un contatto diretto, il figlio avuto dal nobile Matsudaira, la donna a un certo punto alza gli occhi per guardare il ragazzo e per un attimo guarda in camera, quasi a chiamare lo spettatore a una compartecipazione emotiva delle proprie sventure. E’ da notare a questo proposito la disinvoltura con cui Mizoguchi utilizza un istituto, quale lo sguardo in camera, assolutamente inusuale negli anni Cinquanta.
Per quanto riguarda lo stile, Vita di O-Haru è uno dei film in cui si nota maggiormente quell’estetica del long take e del piano sequenza per cui Mizoguchi attirò, negli anni Cinquanta, l’interesse dei critici francesi che gravitavano attorno all’ambiente dei Cahiers du cinéma. Ad esempio, la sequenza del corteggiamento di O-Haru da parte di Katsunosuke, il samurai di umili condizioni che vorrebbe amarla andando contro le convenzioni sociali, è strutturata tramite tre long take che sfruttano l’ambiente spaziale (lo shōji, la tipica parete a porte scorrevoli delle abitazioni giapponesi) e le relazioni prossemiche tra i corpi – che in Mizoguchi riflettono sempre un valore gerarchico – per tradurre in termini plastici il senso drammatico della scena (l’amore tra i due, che appartengono a due classi sociali diverse, è proibito dalla legge). Questa sequenza traduce nella contrapposizione tra la casa, dove la donna si nega alle dichiarazioni dell’uomo, e il giardino, dove essa si concede, la polarizzazione tra i due principi opposti del desiderio (ninjō, in giapponese) e del dovere (giri). Da notare anche il gesto con cui O-Haru si toglie il velo, che ricalca il medesimo da lei compiuto nella sequenza del tempio di fronte alla statua il cui volto ricorda proprio Katsunosuke.
Oltre all’utilizzo dello spazio, in questo film si evidenzia un’altra caratteristica fondamentale dello stile del regista giapponese, vale a dire la tendenza a distanziare la macchina da presa dal centro emotivo dell’azione, a creare un allontamento dello sguardo nel momento in cui il racconto diventa più intimo e emozionale: laddove ci aspetteremmo un primo piano, secondo i codici e le aspettative del cinema occidentale, Mizoguchi si tiene in campo lungo, apparentemente raffreddando il pathos (si è parlato in proposito di “messinscena reticente”). Per finire, ricordiamo la frequenza di inquadrature dall’alto (en plongée), che esprimono bene il senso di oppressione sociale che grava sui personaggi.
Nella chiusa del film, O-Haru – ridotta in miseria a mendicare elemosine di casa in casa in abiti monacali – è inquadrata mentre cammina per strada (da destra verso sinistra), seguita da una carrellata; sullo sfondo si vede il tempio, a esso la donna, sostando, rivolge un breve gesto di devozione e nell’atto di voltarsi la sua figura, in primo piano, si congiunge idealmente e visivamentre con quella dell’edificio in lontananza, dando vita così a un effetto di composizione plastica delle due sagome. O-Haru prosegue ed esce fuori campo a sinistra mentre la macchina da presa si ferma e l’inquadratura mette al centro il tempio, che si configura così come l’esito – narrativo, simbolico e spirituale – dell’apologo di Mizoguchi.
Bibliografia
S. Ihara, Vita di una donna licenziosa, SE, Milano 2016
D. Tomasi, Kenji Mizoguchi, Il Castoro, Milano 1998
Bellezza e tristezza. Il cinema di Mizoguchi Kenji, Il Castoro, Milano 2009
Andrea Bettinelli
(Cineclub Libreria del cinema, Il ragazzo selvaggio)
https://independent.academia.edu/AndreaBettinelli