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Tre volti. Il cinema in auto di Panahi

tre-voltiDicono che le restrizioni alla libertà inducano il cervello a lavorare per trovare vie di fuga originali. Sottrarre a Jafar Panahi la sua macchina da presa e il suo passaporto non gli ha impedito di raccontare il suo paese, non gli sta impedendo di fare cinema: la dimostrazione che i film sono idee in viaggio e che i budget contano meno dell’urgenza dell’arte. Panahi è un diavolo d’artista che si permette con intelligenza di farla sotto il naso alle autorità iraniane che avevano sperato di imbavagliarlo mettendolo ai domiciliari. E invece, il cineasta si inventa un cinema agile, immediato, incisivo, pur sempre meditato. Si inventa una storia di ragazze appassionate di calcio filmando, miracolosamente, fuori da uno stadio dove si gioca una partita dell’Iran (Offside , 2006); poi abbassa i rischi filmandosi a casa, in ascensore, disperatamente in cerca di uno spiraglio (This is Not a Film, 2011); quindi creando un cinemobile, ovvero un set su quattro ruote, infilandosi in un taxi con una macchina da presa (Taxi Teheran, 2015); e ancora in auto, sfidando i divieti di muoversi liberamente lontano dalla capitale, verso le zone rurali del paese, incontrando contadini e commercianti, uomini e donne, vecchi e giovani, per meditare sul presente e il passato recente dell’Iran e anche sul cinema nazionale.
trevoltiStiamo parlando di Tre volti, film magnetico, perfetto nella sua essenzialità, tanto da sembrare un documentario improvvisato. Invece quest’ultimo lavoro del regista iraniano è un magnifico esempio di scrittura zavattiniana, dove il pedimento diventa un autopedinamento. Panahi regista registra se stesso nella sua macchina da cinema mobile e, contemporaneamente, mescola – come fa da tempo e omaggiando il maestro Abbas Kiarostami – realtà e finzione, riuscendo a imbastire una drammaturgia sostenuta dagli sguardi di non-attori.
Tre volti è il viaggio che tocca tre villaggi del nord alla ricerca di una giovane (Marziyeh Rezaei) che sogna il cinema ma che è imprigionata nei doveri familiari, nelle pagine di un storia contadina e maschilista che non permette alle donne di trasformare i loro sogni in realtà, che le vincola a un destino di moglie e madre già scritto e su cui ancora si basa l’onore del ceppo. Il film inizia proprio con l’invocazione della giovane donna che si riprende con il cellulare mentre supplica aiuto, racconta del suo amore per la recitazione, di un matrimonio imposto, per concludere simulando il suicidio. Un video apparentemente amatoriale, piano-sequenza girato in verticale che spacca lo schermo, riducendo il nostro spazio di visione. Il filmato arriva all’attrice Behnaz Jafari che dunque si mette in viaggio con l’amico Panahi per capire se davvero la ragazza si sia tolta la vita.
Un pretesto per una riflessione antropologica sull’Iran dove, forse per gioco, ricorre il numero tre: tre volti che muovono la trama, quelli di Panahi, di Jafari e di Marziyeh che li costringe al viaggio. Tre sono anche gli sguardi all’interno dell’abitacolo: Panahi attore, Panahi regista, la sua attrice. Tre le donne che rappresentano il cinema iraniano: il presente è la Jafari; il futuro la ragazza aspirante attrice; il passato è invece incarnato da Shahrzad (il cui vero nome è Kobra Saeedi), stella del cinema popolare dell’epoca prerivoluzionaria, talentuosa poetessa oltreché attrice, su cui vige il divieto di girare film (come accaduto a tante artiste che hanno recitato prima della rivoluzione).


I volti, come accadeva ne Il cerchio, diventano con i paesaggi dei significanti linguistici nei lunghi piani-sequenza girati dal regista che spesso si pone fuori campo, come per passare al controllo delle sue immagini dietro la macchina da presa, o ad appuntare movimenti ed espressioni dei suoi “attori”, o i loro pensieri che si fanno bagaglio culturale, segni mobili di un paese che invece a tratti sembra ristagnare. La strada a senso unico che divide il villaggio di Marziyeh dal resto del mondo, e che è possibile attraversare solo se si conosce la combinazione di squilli di clacson, è la metafora di questa immobilità, sostenuta da un controllo esasperato sui sogni dei giovani.

Vera Mandusich

Tre volti

Sceneggiatura e regia: Jafar Panahi. Fotografia: Amin Jafari. Montaggio: Mastaneh Mohajer. Interpreti: Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Rezaei. Origine: Iran, 2018. Durata: 100′.

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