Uomini pesce: dalla Laguna al Lido
Chiediamoci se il mondo in cui viviamo non sia mostruoso e ciò che consideriamo mostruoso non possa essere l’eccezione sana.
In piena guerra fredda, in un laboratorio scientifico in Baltimora viene confinato un essere metà uomo e metà pesce, simile a uno dei rettiliani protagonisti di tanti B-movies anni ’50, anzi, parente stretto del Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold (o forse è proprio quel mostro redivivo). Americani e russi, che vantano una spia nel team di scienziati, vorrebbero analizzarlo e carpirne i segreti. Il colonnello Strickland (Michael Shannon), vero duro dal manganello facile, ci rimette due dita e gli giura vendetta. Ma la creatura è intelligente e dotata di capacità straordinarie. Peccato lo capisca unicamente una inserviente muta (Elisa, interpretata da Sally Hawkins), che comincia a comunicare attraverso il linguaggio dei segni. La donna si innamora del rettiliano e, con l’aiuto di una collega nera e del suo vicino di casa, un disegnatore disoccupato e omosessuale discriminato, lo porta in casa sua.
Dalla Laguna al Lido: Guillermo Del Toro mette in bacheca il Leone d’Oro 2017 con una storia d’amore dagli ingredienti fantasy (genere a lui caro), che diventa una favola contemporanea, nonostante l’ambientazione nei primi anni ’60. Libero come sempre di inventare soluzioni visive, Del Toro apre il suo calderone e ci infila citazioni cinefile e letterarie, mescolando il tutto per raccontarci ancora una Bella e una Bestia. La forma dell’acqua elegge dunque a protagonisti dei losers, dei confinati che sull’onda irresistibile della comprensione reciproca sfidano ignoranza, preconcetto e, più in generale una società maschilista, violenta, triviale. In una parola mostruosa.
La forma dell’acqua rivisita la guerra fredda e e l’immaginario ad essa legato attraverso la rappresentazione che il cinema ne diede in tempo reale, superando i confini ideologici che negli anni ’50 distinguevano nettamente buoni e cattivi. Russi e americani sono parti di un apparato di potere che ha eletto l’irrazionalità a logica, dando vita a un conflitto dopo il conflitto le cui conseguenze si sarebbero riverberate sino ai giorni nostri. Come ne Il labirinto del fauno, il fantasy approccia la storia per tentare da un lato vie di fuga secondarie e liberatorie, dall’altro per metaforizzarla. Ancora: la fiaba offre strutture e funzioni che ben raccontano la malvagità degli uomini, schematizzandone la condotta e contemporaneamente enfatizzandone la superbia. La cattiveria perde le ragioni e finisce per rispondere a pulsioni egoiche e sadiche, che si tratti di un gerarca franchista o di un colonnello americano di cui andrebbe fiero il presidente Trump. Strickland è banale nell’espressione del suo odio verso la creatura di un altro mondo, a difesa di un’America di razza pura e di valori profondi: villette con giardino, Cadillac, pollo fritto (un po’ come in Suburbicon di George Clooney). Non c’è posto per minoranze e uominipesce. La violenza del colonnello racchiude molto della storia americana, della conquista coloniale, dello sfruttamento di uomini e risorse: repressione e soppressione. Contesa tra russi e americani, cavia da laboratorio da sezionare o uccidere pur di non mollarla al nemico, la creatura porta con sé l’idea di un paradiso perduto inghiottito dalle acque (un Kong derubato della sua isola); ma anche di un mondo subacqueo e misterioso in cui sopravvivere è possibile, adattandosi alla forma dell’acqua, un ossimoro, certo: l’acqua prende forma solo se contenuta, come nel bagno di Elisa, luogo di regressione prenatale (donnapesce nell’utero materno?) e di piacere solitario, paradiso dei sensi (non ancora perduto).
Seppur la sceneggiatura insista forzatamente su letture analogiche (la discriminazione e la solitudine dei confinati nei parallelismi tra omosessuale, disabile, negra, mostro), Del Toro si conferma narratore senza soggezioni, libero nel richiamare generi, senza per forza doverne rispettare i codici, e film, senza obbligatoriamente chiedere permessi (Jeunet ci ha visto un po’ dei suoi Amélie e di Delicatessen), lasciando che personaggi fragili ma caparbi trasformino visivamente il racconto, sovrapponendo realtà e surrealtà, fisica e metafisica, per superare l’orrore con l’incanto.
Alessandro Leone
Il baco nel sistema
C’è un mostro che non distrugge tutte le astronavi e che nemmeno vuole banchettare con donne e bambini. Non arriva dallo spazio, più di quanto non arrivi dallo spazio la razza umana; non si muove alla conquista di altri mondi con l’aggressività dei colonizzatori nelle tre Americhe. Ma se la creatura non è carne (terrestre) e non è pesce, e forse è figlia dell’atomica, e per sventura decide di metter fuori la testa dalla palude in cui riposa in epoca di Guerra Fredda, allora il destino è segnato da un bivio: diventare arma a servizio di uno dei due blocchi o cavia da laboratorio, scherzo della natura da sezionare, analizzare e gettare in un tritarifiuti, senza nemmeno considerare l’intelligenza dietro la dismorfia.
Premiato a Venezia con il Leone d’Oro, forse inaspettatamente, La forma dell’acqua si presta alla (facile) lettura politica in quanto film antitrumpiano (che va molto di moda), poiché manifesta scopertamente la natura aggressiva del più letale conservatorismo statunitense che si è specchiato orgogliosamente nella retorica repubblicana. Conquistatori in nome della supremazia bianca, fucile con colpo in canna appeso alla parete, confini pattugliati e gabbie sempre aperte per qualsiasi intrusione animalesca (da sud soprattutto), c’è ancora chi si prepara all’invasione di mostri della Laguna Nera, oggi, in pieno secolo ventunesimo, quando della Guerra Fredda non è rimasto che un tiepido rigurgito a nord del 38° parallelo.
Sarà per questo che The Shape of Water è piaciuto e non è piaciuto (al di là delle accuse di plagio, ma cosa vorrà poi dire oggi plagiare…), contemporaneo e anacronistico al tempo stesso, ovvero attuale nell’allegoria ma anche fuori tempo massimo nell’ambizione di ripercorrere l’estetica dei monster movie degli anni ’50. Eppure Del Toro non sembra aver compiuto un’operazione nostalgica o, anche, ludica. Il regista che gioca con i fumetti e i robot (Hellboy, Pacific Rim), ma che è capace di riletture storiche (contemporanee) incrociando i generi (Il labirinto del fauno, La spina del diavolo), viaggia indietro nel tempo, e anche nella storia del cinema, per identificare elementi comuni nei comportamenti umani che ripropongono in carta carbone errori ed orrori. Per cui la storia recente non è origine dei mali del presente, ma il presente una variazione dello stesso terribile tema. Non si scappa, perché la creatura dell’altro mondo per Del Toro è l’uomo, che in rari casi si è evoluto addomesticando l’istinto (nemmeno si può parlare di pulsione) alla prevaricazione come forma di sopravvivenza, rispondendo alla paura atavica di essere divorato da altre creature simili. Il colonnello Strickland vs Elisa, il preconcetto contro il sentimento applicato all’intelligenza, il monocromatismo opposto a un ampio ventaglio di colori. E fa pensare durante quasi tutto il film l’incapacità del militare di identificare con chiarezza il nemico, tanta è la paura di avere intorno solo nemici in un sistema perfettamente controllato.
Elisa come il baco nel sistema dunque? Una Amélie muta senza ambizioni, senza famiglia, il cui unico piacere quotidiano è masturbarsi nelle acque della sua vasca da bagno per dare forma a un sogno evanescente, è possibile che scardini la porta blindata di un bunker approfittando del suo essere niente, trasparente, e forte (forte?) dell’amicizia di altri due esseri invisibili?: un frocio e una negra.
A sovvertire gli equilibri in un atto di forza degno di Davide, ci pensano dei confinati in missione improvvisata, all’assalto avventuroso perché la noia diventi favola d’amore e la favola si faccia speranza. Il film di Del Toro quì diventa ideologico, si fa invito all’azione dal basso. E se qualcosa manca rispetto al Labirinto del fauno o La spina del diavolo è forse la tragicità del contesto storico, che si fa più agghiacciante nell’accostamento alle fantasticherie di genere, perché gli anni ’50-’60 sembrano troppo troppo fumettistici e nascondono vene nostalgiche.
Vera Mandusich
La forma dell’acqua
Sceneggiatura e regia: Guillermo Del Toro. Fotografia: Dan Laustsen. Montaggio: Sidney Wolinsky. Musiche: Alexandre Desplat. Interpreti: Sally Hawkins, Octavia Spencer, Michael Shannon, Richard Jenkins, Doug Jones, Michael Stuhlbarg, David Hewlett, Nigel Bennett, Nick Searcy. Origine: Usa, 2017. Durata: 123′.