Dodici situazioni, tredici personaggi (13!) interpretati da Cate Blanchett, trasformista, eclettica, unica attrice oggi in grado di compiere prodigi del genere. La Blanchett che fu Bob Dylan in Io non sono qui, che per Jarmusch si era sdoppiata in un episodio di Coffee and Cigarettes e che, nonostante tutto, non sembra figlia dell’Actors Studio perché pare arrivare letteralmente da un altro pianeta, si regala all’artista filmmaker tedesco Julian Rosefeldt.
Manifesto è un curioso oggetto cinematografico, che nasce da una videoinstallazione in dodici schermi, portata in mostra in città vivaci dal punto di vista artistico come Berlino, New York e Melbourne. Rosefeldt costruisce dodici monologhi partendo da dodici manifesti (o scritti di teorici, poeti, architetti, pittori, performer) che hanno segnato movimenti culturali e sociali nel secolo scorso, redatti quasi tutti nel Novecento o proiettati nel Novecento (come il padre di tutti i manifesti: quello di Marx). La sceneggiatura intende speculare non solo sui contenuti provocatori dei diversi Manifesti, ma riproporre piuttosto una riflessione sull’impatto sociale e politico dei movimenti artistici, nonché sulla presunta e spesso controproducente autoreferenzialità dell’arte stessa, incapace, dalle avanguardie storiche in poi di agevolare il dialogo con il pubblico. La Blanchett ha il compito di farsi homless in lotta contro i capitalismi, poeta dada contro gli apparati accademici, surrealista contro le nevralgie razionali, razionalista contro il caos delle avanguardie, e ancora situazionista debordiana, fino a libera battitrice nel circo delle vogue del teatro danza, della musica o delle tendenze iconoclaste in un cinema che non vuole padri (von Trier e i suoi provocatori dogmi, per intenderci). Dodici quadri scenici che, frantumati e riassemblati per lo spettatore cinematografico, esaltano la camaleontica Blanchett (giornalista, burattinaia, broker, coreografa, madre di famiglia, operaia, maestra, cantante e altro ancora) arrabbiata, categorica, severa, entusiasta, malinconica, aggressiva, algida, accalorata, strafottente, provocatoria: un vero saggio di recitazione in un film che rinuncia alla drammaturgia e assottiglia il confine tra videoarte e cinema mainstream.
Ma attenzione: chi non conosce i manifesti novecenteschi e, in generale, la geografia dell’arte negli ultimi 130 anni, rischia di rimanere indifferente, anche se in fin dei conti, la scommessa di Rosefeldt è proprio quella di arrivare a platee più vaste delle nicchie della videoarte o delle videoinstallazioni con brevi ma costanti scosse elettriche, indipendentemente dal livello culturale dello spettatore, folgorato a intermittenza con suggestioni verbali e una fotografia ricercatissima. Il monologo, parcellizzato nelle dodici scene, non è sterile sfoggio di saggistica o citazionismo post-modernista, poiché tenta una sinergia tra concetti che si accavallano, si contraddicono, si offendono a vicenda, così che alla fine non può fare la differenza la comprensione di ogni segmento, ma lo sprofondamento nel flusso di intuizioni di personaggi che hanno acceso la dialettica novecentesca sullo statuto della verità in arte (se mai ce n’è stato uno) e sul valore dell’arte stessa fuori dai luoghi deputati: futuristi, dadaisti, surrealisti, situazionisti, e ancora Fontana, Oldenburg, Jarmusch, Rainer, sono protagonisti per interposta Blanchett.
Manifesto si inserisce in questo filone di ricerca: consapevole di attualizzare, più che nella società dello spettacolo, nella dilatazione della società dello spettacolo, pensieri che non hanno esaurito il potenziale e che invece si prestano a strumento di lettura della contemporaneità. La verità, la sincerità, l’utilità dell’arte nell’epoca della trasfigurazione del reale – interpretato, anagrammato, virtualizzato, scomposto e rimaterializzato in immagini nelle piattaforme policrome della rete – è materia di riflessioni anch’esse spettacolari: lo spettacolo di Cate Blanchett truccata e parruccata tredici volte (13!) che sovrasta la portata dei manifesti, il cui intento nel secolo scorso è stato, ancora prima di definire nuovi approcci ed estetiche, affermare l’esistenza di una voce egoica, nel gioco degli azzeramenti, delle tabule rase con il passato, dei nuovi principi costitutivi.
Forse eccessivamente concettuale e tautologico, il film, pur mettendo al centro le arti, pone infine più di un problema su quale sia il luogo del film e la definizione di film. Non lo dice esplicitamente. Tale riflessione, non nuova, perché nasce già con le pellicole dada o surrealiste e con tutto il cinema d’avanguardia dagli anni ’30 in avanti fino all’ultimo Godard, corre senza curvature dal primo all’ultimo secondo di proiezione, poiché è insita nell’impasto operato da Rosefeldt nel momento in cui ha deciso di smontare la sua installazione per portarla in sala, accodandosi a quei videoartisti passati dai musei ai teatri cinematografici (e viceversa) che tanto terrorizzano la critica, disorientata di fronte alla pretesa sacrosanta di sfumare i contorni che separano generi e formati, e dal pendolarismo di autori come Steve McQueen, Schnabel, Greenaway, per non citarne che alcuni.
Alessandro Leone
Manifesto
Sceneggiatura e regia: Julian Rosefeldt. Fotografia: Christoph Krauss. Montaggio: Bobby Good. Interpreti: Cate Blanchett, Erika Bauer, Carl Dietrich, Marie Borkowski Foedrowitz, Ea-Ja Kim. Origine: Australia/Germania, 2015. Durata: 94′.