Non credo che il 21 dicembre 2012 pioveranno saette che distruggeranno l’umanità, quindi la mia proposta riguarda un’ipotesi più verosimile dell’apocalisse: quella secondo cui sarà l’uomo stesso, con la sua smania d’onnipotenza, a distruggere se stesso e i suoi simili. Il film che rappresenta meglio quest’idea è Io sono leggenda (2007) del regista pubblicitario Francis Lawrence.
La storia racconta di Robert Neville, un militare americano rimasto solo a New York dopo che un virus, creato in laboratorio con l’intento di curare il cancro, ha sterminato tutti gli esseri viventi. Robert fa parte di quell’1% della popolazione mondiale che risulta immune al micidiale virus, che non sempre determina la morte della creatura di cui si impossessa, ma al contrario spesso la porta a divenire uno zombi. Robert deve oscillare ogni giorno tra l’inquietudine della solitudine (che lo porta a parlare esclusivamente con dei manichini e col suo cane Sam) e l’istinto di sopravvivere ai mostri, nonostante tutto. In lui si esprime anche il desiderio di cercare una cura e di poter ristabilire i contatti con quel poco di mondo che è rimasto. Will Smith (bravissimo nel reggere il film recitando quasi senza interlocutori), nei panni di Robert, mette sullo schermo un protagonista molto americano, molto distante dal personaggio di origine anglotedesca immaginato dal romanziere Richard Matheson, autore del libro da cui il film è tratto. Hollywood non è ancora pronta ad affrontare l’idea di un eroe che è leggenda perché ormai rimasto completamente il solo esponente della vecchia razza umana e vi sostituisce un eroe alla vecchia maniera che combatte strenuamente per salvare qualcun altro. Infatti il romanzo, che è del 1954, lascia Robert come solo ed unico esponente dell’umanità, assediato continuamente da mostri che originariamente non erano zombi bensì vampiri. Il gioco psicologico diventa quindi meno sottile, ma forse la messa in scena risulta decisamente più avvincente.
L’apocalisse sembra sospesa, aleggiante per le strade deserte di New York in cui si evidenzia la smisurata piccolezza dell’uomo, grazie all’ottimo lavoro della scenografa Naomi Shohan. Solo la lotta e la ricerca possono rappresentare la vita, sospesa al filo della precarietà. Un soggetto molto interessante, talmente interessante da essere già trasposto ben tre volte al cinema. Questa versione del 2007 può vantare una sceneggiatura piuttosto buona di Akiva Goldsman e Mark Protesevich.
Alla fine la grande domanda che il film propone è semplicemente: può l’uomo determinare la propria distruzione così come la propria salvezza? E soprattutto, potrà farlo un uomo comune?
Giulia Colella