«L’arte non riproduce ciò che è visibile», diceva il grande pittore Paul Klee, «ma rende visibile ciò che non sempre lo è». Con queste parole il celebre artista tedesco non rimarcava soltanto l’indissolubile legame tra presenza e assenza, insito in ogni opera artistica, ma metteva soprattutto in risalto la natura creatrice dell’uomo, il suo essere essenzialmente un narratore di storie, un inventore di scenari nei quali ama egli stesso collocarsi, fino a dimenticare il sottile confine che separa la fantasia dalla realtà. Ma i ricordi? Come nascono i ricordi? Per i ricordi l’emotività e il sentimento sembrano giocare un ruolo più determinante. Avere un passato alle spalle, infatti, non è sufficiente a determinare una memoria autobiografica, occorre altresì possedere un’intelligenza emotiva strutturata in grado di registrare il vissuto e metterne in relazione i diversi momenti, secondo schemi e percorsi di significato che non per forza rispettano un ordine temporale. Nel romanzo Cacciatori di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?), Philip Dick aveva immaginato una società del futuro completamente appiattita sui modelli della comunicazione di massa, in cui gli esseri umani erano indotti, più o meno consciamente, a inibire le proprie fantasie, grazie soprattutto all’apporto di strani macchinari regolatori dell’umore, direttamente collegabili alla corteccia cerebrale, detti Organi Penfield, per mezzo dei quali le persone potevano impostare i propri stati d’animo nel modo più appropriato rispetto al particolare momento della giornata. Non tutti, però, sembravano accettare questa omologazione, al punto da disobbedire alle indicazioni riportate sulle schede mediche loro assegnate e regolare il Penfield su parametri del tutto arbitrari, così da autoinfliggersi volontariamente tristezza e malinconia, come se la deflessione timica rappresentasse l’unica via d’uscita da un mondo forzatamente perfetto, insopportabilmente felice. Del resto è risaputo, senza la presenza del male non c’è narrazione; senza ostacolo, dolore o un avversario che impedisce il conseguimento di uno scopo nessuna storia può essere scritta, né tanto meno immaginata. Si tratta di uno degli argomenti più interessanti presenti nel celebre romanzo di Dick che, per motivi narrativi, gli sceneggiatori del primo Blade Runner non hanno voluto approfondire, probabilmente per non rischiare di appesantire una sceneggiatura di per sé già perfetta e rivolta ad altri contenuti. In Blade Runner 2049, la tematica viene in qualche modo sfiorata, ma con esiti che non si spingono oltre le vie già percorse e i consueti cliché della tradizionale fantascienza cinematografica. Il Penfield si trasforma così in un mero ologramma per replicanti tristi, bisognosi di affetto: un’intelligenza artificiale dalle conturbanti fattezze femminili, capace di sperimentare sentimenti propri, desiderare e amare, tanto da poter stabilire relazioni privilegiate con i propri clienti, un po’ come accade al sistema operativo OS 1 – Samantha e all’introverso Theodore, nell’Her di Spike Jonze, senza però riuscire ad avvicinarsi minimamente ai quei livelli di poeticità, complice anche la scarsa empatia che riescono a trasmettere gli attori, Ryan Gosling in primis, alter ego di Joaquin Phoenix, la cui inespressività potrebbe apparire quanto mai adatta alla figura dell’irreprensibile umanoide di nuova generazione, ligio al dovere e incapace emotivamente di ribellarsi, ma che si rivela presto un boomerang narrativo nel momento in cui la sceneggiatura – davvero debole, occorre dirlo da subito – gli chiede di cambiare registro e sembrare più umano dell’umano.
Sono passati trent’anni da quando Rick Deckard (Harrison Ford) e la replicante Rachael (Sean Young) sono fuggiti dalle piogge acide di Los Angeles per cercare di vivere la loro storia d’amore proibita. E a quanto pare sono riusciti a far perdere le loro tracce. Ora, però, altri Blade Runner sono mandati a “ritirare” i vecchi Nexus ribelli ancora latitanti. Questi nuovi cacciatori sono anch’essi androidi, programmati però in maniera tale da non poter anelare nessun tipo di riscatto, né vagheggiare pretese di emancipazione. Durante una missione del migliore di questi poliziotti speciali, l’Agente K, le autorità scoprono che la fuga di tre decenni prima cela un inquietante segreto che potrebbe destabilizzare l’intero ordine sociale.
La traccia non poteva essere più scontata. E tuttavia, nonostante l’assoluta mancanza di originalità narrativa, lo sfrontato parassitismo nei confronti della sceneggiatura del 1982, la completa assenza di approfondimento psicologico dei personaggi, sarebbe sbagliato considerare Blade Runner 2049 un brutto film. A evitare quello che alla vigilia si sarebbe potuto immaginare un sicuro fallimento è la straordinaria abilità registica di Denis Villeneuve, capace di convertire la povertà di idee a disposizione in un’opera dal grande impatto visivo che non manca, in certi frangenti, persino di emozionare, grazie anche all’apporto della splendida fotografia di Roger Deakins e delle suggestive scenografie di Dennis Gassner. Giostrando abilmente immagini e tempi scenici, Villeneuve non si limita semplicemente a rievocare gli scenari romanticamente catastrofici del film di Scott, ma li riempie di fosca nostalgia, come nelle scene all’interno dell’albergo dismesso in cui il vecchio Deckard si è rifugiato in compagnia soltanto dai propri ricordi, che sono poi i ricordi dell’umanità intera, i quali, simili a fantasmi dalle fattezze di vecchie stelle dello spettacolo, seguitano ad aleggiare nei corridoi vuoti: memorie scollegate dai soggetti pensanti; miti senza pubblico in grado ormai di brillare di luce propria; tracce mnestiche sospese, in attesa di essere innestate in qualche nuovo, sofisticato organismo da laboratorio.
Villeneuve è davvero bravo a organizzare il materiale offertogli dagli scarsamente ispirati Hampton Fancher e Michael Green e il suo Blade Runner si dimostra certamente un film godibile. Ma niente di più. Al di là della forma e qualche buona idea sparsa nei 151 minuti di durata, l’opera non si spinge oltre la rievocazione nostalgica. Il replicante ambisce sempre a diventare umano, e tuttavia non è più in grado di insegnare nulla e nemmeno di creare, ma solo di incupirsi e rimpiangere un’età dell’oro che non ha contribuito a inventare. Esaurito quindi il piacere visivo, quello che resta è il rammarico per l’occasione sprecata, soprattutto se si pensa alla vasta letteratura cui sarebbe stato possibile attingere, dallo stesso Dick a Kevin W. Jeter, che del film di Scott ha scritto ben tre seguiti. Le uniche vere risposte che Blade Runner 2049 riesce a dare, sono forse quelle che gli appassionati del primo film non avrebbero mai voluto conoscere, ossia che, gratta gratta, gli androidi sono noiosi e banali quanto gli esseri umani e che sì, anche loro possono sognare pecore elettriche.
Manuel Farina
Blade Runner 2049
Regia: Denis Villeneuve; sceneggiatura: Hampton Fancher e Michael Green; Fotografia: Roger Deakins; Montaggio: Joe Walker. Musiche: Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer. Scenografia: Dennis Gassner. Interpreti: Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista, Edward James Olmos. Origine: USA, 2017. Durata: 151′.