Qualche anno prima di turbare il pubblico veneziano con Canicola, portando a casa anche il Gran Premio della Giuria (era il 2001), Ulrich Seidl aveva realizzato un documentario intitolato Amore bestiale: la zoofilia come perversione sessuale per descrivere certi uomini e certe donne e il loro rapporto con gli animali. Vedendo Safari non è possibile non ripensare a quel film, che in Italia ebbe una limitata diffusione in home video (io lo vidi in vhs, Edizioni E Mik). A circa vent’anni di distanza – dopo aver affondato il suo coltello gelido nel ventre del popolo austriaco, film dopo film, con uno stile, diventato un marchio di fabbrica, che dichiara l’asetticità dello sguardo documentarista per posizionarsi criticamente di fronte all’oggetto ripreso attraverso la meticolosa costruzione dell’inquadratura – Seidl riattizza il fuoco sul tema, aumentando l’intensità della fiamma. La relazione che produce il rapporto tra umani ed animali non ha nulla a che fare con l’amore (andrebbe virgolettato) ma con la morte (senza virgolette), perché i protagonisti di Safari sono ricchi austriaci puzzolenti di edonismo che nella savana tra Namibia e Sud Africa, protetti dai confini di una riserva, pagando profumatamente abbattono (perché a sentire una di questi svitati “non uccidono”) gnu, zebre, elefanti, leoni, giraffe.
Bianchi, bianchissimi, in completi kaki, scortati dai nerissimi guardiaparco locali, in coppia o in terzetti, scendono dalle loro camionette, si appostano con i binocoli in attesa delle prede, posizionano il cavalletto, ci appoggiano il fucile e, quando la bestia è a tiro, fanno esplodere il colpo, uno solo, che deve perforare la cassa toracica e arrivare in prossimità degli organi vitali, perché l’agonia lenta possa far schizzare l’adrenalina nell’attesa che l’animale vada a morire poco lontano. A quel punto il rituale prevede abbracci, pacche sulle spalle, fotografie di rito vicini al corpo esanime, rinnovando battuta dopo battuta (di caccia) lo stupore per la vita che non è più. Sotto la lente di ingrandimento di Seidl, donne e uomini si emozionano come davanti a un parto, onorando l’animale come si fa dopo una battaglia con un nemico che non si è risparmiato. Ma attenzione, siamo lontanissimi dalla metafora di Cimino che in The Deer Hunter (Il cacciatore) metteva quattro amici di fronte a un cervo con un solo colpo in canna, perso il quale la caccia finiva. Nei safari ripresi da Seidl questa gente è protetta da qualsiasi pericolo e non deve inseguire ma attendere in luoghi prestabiliti l’animale ignaro e ingannato. Ogni sparo nel film arriva a bucare il silenzio in sala, nella consapevolezza che la verità è davanti alla macchina da presa senza intercessioni, così secca, da prendere e portare a casa, sempre che, disturbati, non si lasci prima la sala. E sarebbe un peccato, nonostante all’apparenza Safari possa sembrare un “mondo movie”: prima di tutto perché non c’è exploitation, nonostante nella seconda parte Seidl insista con cognizione di causa sugli sventramenti; e poi perché i “turisti” via via raddoppiano il protagonismo, raccontando non solo l’emozione della caccia, ma esponendo anche un impianto etico che dovrebbe proteggerli ulteriormente dalle ipocrisie borghesi, dai giudizi di condanna per una pratica che invece rientrerebbe nella catena alimentare, ponendo l’uomo al vertice della piramide come predatore. Non è forse vero che i mattatoi industriali sono aberrazioni acquisite? Allora ciò che sconvolge non è tanto l’abbattimento (non uccisione!) di una giraffa, ma il godimento razionalizzato che determina la morte, l’emozione del colpo inferto vicino alla perfezione balistica.
Seidl, che fa documentario anche nei film a soggetto, non risparmia il suo giudizio in merito, nonostante molta critica continui ad asserire che il regista viennese osservi da lontano e si limiti a registrare fenomeni sociali, quasi fossero i suoi film trattati sulle anomalie comportamentali (ripenso al precedente In the Basement, che scoperchiava gli scantinati degli austriaci per trovarci un campionario di devianze, ma anche alla trilogia Paradises).
Invece il giudizio esiste ma passa esclusivamente dal seducente linguaggio cinematografico, dalla composizione del quadro, dalle simmetrie degli interni o degli esterni in cui colloca i suoi soggetti: per questo la coppia di settantenni ciccioni, sdraiati sotto il sole e schiacciati dalla sua lente mentre leggono le quotazioni economiche di ogni animale, diventano grotteschi peggio che in un quadro di Grosz. La comoda postura di due ventenni, lui e lei, figli devoti di una coppia di cacciatori per svago, che tentano di leggersi emotivamente con povertà verbale disarmante, si fanno portavoce, loro malgrado inconsapevoli, della pochezza del pensiero debole dell’occidente ancora in odore di colonialismo. Come anche stagliare a figura intera o piano medio o primo piano, attorniati da animali impagliati, i corpi dei giovani africani pagati per servire il turista e poi per scuoiare e ripulire abilmente le carcasse delle bestie.
Proprio queste immagini che sarebbero anche di maniera, si articolano in una polisemia che sotto sotto dà il senso dei rapporti di forza ancora immutati da decenni, nonostante le indipendenze: un po’ perché – come afferma il proprietario dei lodge – l’Africa si regge su governi ancora giovani (leggi deboli), un po’ perché la colonizzazione ha assunto oggi aspetti diversi e diversamente mascherati da logiche del profitto. I ciccioni che cuociono sotto il sole o trangugiano birra non fanno più ridere ma orrore e, quel che è peggio – e Seidl lo sa bene – imbarazzano perchè tanto o poco ci somigliano o, se non ci somigliano, ci ricordano che ciò che vediamo in ogni suo film in parte ci appartiene, frazionato negli interstizi che corrono bui tra colpa esenso di colpa.
Alessandro Leone
Safari
Regia: Ulrich Seidl. Sceneggiatura: Veronika Franz, Ulrich Seidl. Origine: Austria/Danimarca, 2016. Durata: 90′.